(Ri)educhiamoci ai sentimenti | Nuovissimo Testamento

Avvertenza: se fare i conti con la realtà vi provoca agitazione, non leggete questo articolo. E non leggete Nuovissimo Testamento di Giulio Cavalli.

Un giorno Fausto Albini disegna un cerchio nella sabbia, viene assalito da una sensazione, si sente male e viene ricoverato nel reparto Disturbi Affettivi nello Stato di DF.

Non è forse libertà essere scevri da ogni condizionamento e non avere pensieri laterali che irrompono durante la giornata?

Inutile prenderci in giro, la risposta è sì. A DF il governo non viene eletto ma imposto, e la carica di presidente si tramanda di generazione in generazione. Per rendere possibile la gestione di una nazione fatta di uomini, e quindi delle loro complessità ingestibili, si è trovato un modo per rendere piane le persone: cancellare il sentire. Tutto è regolamentato e deciso dal governo, dai colori di abiti, edifici, oggetti sono sempre più neutri perché possano passare inosservati fino al mestiere di ognuno e alla collocazione dei cittadini in classi con la possibilità di essere promossi o regredire in base al comportamento e alla redditività; e “se c’è qualcuno che dice che qui a DF costringiamo le persone a intraprendere il mestiere che decidiamo noi come autorità di governo significa che non ha capito come va il mondo, non ha capito che l’economia è la summa della politica perché significa incastrare i numeri, le nascite, i morti, gli uomini, le donne e i talenti in un quadro che non si può permettere di cedere in nessuno dei suoi lati”. Sono bandite le arti che da sempre creano rivoluzione, il pensiero libero e il libero arbitrio. Il gusto non esiste, gli alimenti cambiano ogni settimana secondo delle tabelle che indicano per ognuno il giusto fabbisogno giornaliero per sopravvivere. Non esiste il senso della famiglia, le coppie vengono formate in base a classe sociale e caratteristiche per un periodo di tempo, soltanto per riprodursi. I bambini nati vengono allevati dal governo. Gli anziani nascosti in strutture apposite sino alla fine dei loro giorni perché è di cattivo esempio vederli oziare. Il Paese deve solo produrre. Non esistono emozioni, non esistono domande. Non esistono bisogni.

Nel governo di DF avevano infatti studiato a lungo il fatto che la mancanza di empatia fosse la garanzia più solida e importante per il mantenimento del potere e del governo: se l’uomo non si riconosce tra simili non riesce a dare un nome ai propri bisogni. Un uomo che non riconosce i propri bisogni non possiede il vocabolario della democrazia.

I cittadini diventano un gregge mansueto che non ha contezza di vivere una situazione di dittatura. Il governo riesce a far presa su di loro perché si propone come un liberatore dal dubbio e dalla sofferenza derivanti dalle scelte che dobbiamo compiere ogni giorno, anche le più semplici come il pranzo o la cena, e dalla trattativa continua nelle relazioni. Il governo riesce a imporsi perché si professa vicino al cittadino, un risolutore e un facilitatore della loro vita e, di conseguenza, qualcuno che lavora per la felicità e la riuscita di ognuno. Ma mentre in DF riesce a farlo con un sotterfugio, un vaccino che viene iniettato di nascosto ai bambini e che addormenta il sentire e l’empatia, nella nostra società l’arma utilizzata è quella della propaganda attraverso la televisione, della paura, dell’omologazione, dei continui stimoli immediati e passivi che portano a considerare l’arte come un vezzo borghese noioso e inutile. La letteratura non ha attrattiva, il tempo è sempre più veloce e bisogna inseguirlo.
Anche la nostra società punta a produrre: non decidono il nostro lavoro ma ci costringono fare delle scelte che seguano il mercato. Io me li ricordo gli articoli in cui si indicavano le professioni del futuro, le professionalità più ricercate e quelle umanistiche hanno sempre il numero in negativo.
Possiamo aggiungere a tutto questo l’età pensionabile sempre più alta, la gavetta dei giovani sempre più lunga in attesa di qualcosa che non arriva e che neanche vogliamo ma ci troviamo a desiderare, l’odio di classe e le pubblicità sull’orologio biologico delle donne. Per fare solo qualche esempio banale.
A DF anche il linguaggio è condizionato e la socialità è condizionata. Ridotta ai minimi termini, solo qualche convenevole e battute di spirito con conoscenti, colleghi e moglie/marito assegnato. A DF le televisioni sono tanto più grandi quanto più è alta la classe di appartenenza. Indicativo di come questo mezzo abbia inciso su di noi e sul nostro modo di parlare e di pensare, così come sul rapportarci agli altri: molto spesso, troppo spesso, gli scambi tra persone riguardano proprio programmi televisivi come soap operatalk show e reality che entrano completamente nella nostra realtà. Creano una comunità. Superficiale. Tutto è viziato, qui e a DF, votato a rassicurare.
Ma in tutti gli Stati qualcuno sfugge alle regole. Nel romanzo le Brigate Sentimentali agiscono in segreto e spacciano di tutto: cibo, vestiti, musica e libri. Imporre delle novità che stridono con l’abitudine non sempre sortisce gli effetti sperati. A DF accade proprio questo perché “per costruire emozioni bisogna averne il vocabolario mentre i cittadini di DF sono analfabeti. Volete raccontare una bella storia a gente che non capisce la vostra lingua”.
Anche se oggi l’arte non è scomparsa, viene comunque considerata come non necessaria, da istituzioni e cittadini. Bisogna educare le persone, educarle al bello.

È facile, disse Fausto Albini, educare la gente al brutto, basta lasciarla cadere e poi farla strisciare e rassicurarla che è normale, educare alla bellezza significa aprire il cuore e farci entrare tutto dentro, come la bocca di un balena in fondo all’oceano, entra il bello certo e ci entrano certi pezzi di vetro ed entra l’aria ispida e entra tutto e non ci possono essere filtri nelle branchie di un popolo che ha disimparato a respirare.

Permettetemi di dire che nelle arti non tutto rientra nel bello e rimanendo nell’ambito letterario, banalmente, ci sono i libri belli e i libri brutti. Educare al bello significa certo educare a riconoscerlo, a goderne, a stupirsi come riescono solo i bambini e come succede a Fausto Albini la prima volta che legge un libro in ospedale, di nascosto, scoprendo altri mondi altre idee, un altro possibile. Che poi è questa la forza della letteratura no?
A DF però chi mostra uno scostamento dalla rotondità affettiva, senza spigoli da smussare per creare spiragli dall’intorpidimento, viene descritto come malato, o ancora diverso. Le Brigate Sentimentali, una volta uscite allo scoperto, fanno notizia e sui giornali, anzi il giornale, si spreca inchiostro. Le loro foto vengono modificate per sembrare più scure, e loro più sinistri. Diventano altro. Questo altro è pericoloso, un terrorista, il colpevole su cui riversare tutta la rabbia. Perché a un certo punto il governo, per combattere le Brigate Sentimentali, decide di riportare la paura nei cittadini. Una paura illogica che viene instillata dall’alto e che porta al sospetto e istiga alla vendetta. Una paura che viene utilizzata per accrescere il potere del governo, salvatore dei cittadini. Una paura quindi del diverso e di qualcuno che vuole espropriare loro beni e benefici.
Lo scostamento va risolto, curato nel senso più invasivo. Anche nascosto.
A me ricorda proprio la paura che fanno crescere in noi per chiunque non sia italiano o non sia bianco. Andando ad allargare la visuale, penso a come si nascondano le carceri, fuori dalla vista non esistono, non sono parte della città. Ma qui il discorso è ampio.
La scrittura di Giulio Cavalli è perfetta per un racconto così duro e lucido di una società che potrebbe diventare la nostra società se non ci diamo una svegliata. Estremizza situazioni esistenti con parole precise e mai strabordanti, enfatizza la ripetitività, l’aridità, la superficialità e l’inutilità di una vita volta alla produzione descrivendo minuziosamente le abitazioni tutte uguali o i colori bianchi e grigi segnalati da numeri per definire sfumature inesistenti. Sembra una scrittura pacata e piatta come la vita a DF e ma si avverte un movimento sotterraneo.
È una linfa che scorre inarrestabile quella dell’individualità, della libertà, della curiosità e dell’amore, in continuo mutamento e ricambio.


Però Giulio Cavalli ci frega. Ci parla di rivoluzioni ma anche di una società senza violenza e a cui tutti possono contribuire e in cui vivere con dignità. Siamo sicuri che, se ci fosse un referendum, voteremmo per l’arte, la violenza, la trattativa, la sofferenza e non per una calma piatta?
Chissà che il Nuovissimo Testamento non indichi una nuova venuta.

Viviana Calabria

Giulio Cavalli
Nuovissimo Testamento
2021
Fandango Libri
pp. 276
€ 19,00
ISBN 9788860447098

Confini fisici e mentali | Il confine del paradiso

“Una prigione diventa casa se possiedi la chiave.”
 George Sterling

Non volevo farla finita vicino a casa, dove avrebbe potuto trovarmi mia moglie, oppure, ed è ancora più terribile pensarci, i miei figli. […]. Non ho fatto altro che causare problemi a tutti e tre, e la cosa peggiore è che mi amavano lo stesso; e quindi non so proprio come questo possa essere altro che un tradimento e un’ingiustizia.

Siamo di fronte a una certezza, quella che caratterizza tutti noi: la morte. Il confine del paradiso di Esmé Weijung Wang comincia dagli ultimi attimi di vita di David, dal suo biglietto d’addio, a dimostrazione di come quell’evento sia un punto fondamentale della storia, di quanto lui sia uno spartiacque tra due vite.
Primo romanzo della scrittrice statunitense nata da genitori taiwanesi, consta di quattro parti e segue la cronologia degli avvenimenti ma alterna i punti di vista: tranne per la prima in cui a raccontare è David, nelle altre i capitoli vengono alternati tra i diversi personaggi principali di quel lasso di tempo e questo permette di indagare a fondo pensieri e azioni.
Tutto ha inizio con i Novak, una famiglia di ebrei polacchi emigrati in America in cerca di fortuna. La fortuna la trovano, il sogno americano si avvera: fondano la Novak Piano Company che prima della guerra conosce una grande fortuna, pari ai celebri pianoforti Steinway. Con la guerra e la conseguente instabilità la musica cambia per gli affari, ma la loro apparente tranquillità non muta. Presto David inizia a dare sfogo a quelle che si rivelano nevrosi: attribuiva ai suoi pupazzi un’anima e quando uno di questi subiva deterioramento, lui arrivava ad avere attacchi di panico.

Racconta che il suo primo incontro con il suicidio risale alla lettura di L’uomo che amava i lupi di William P. Harding, gesto che “non riusciva proprio a capire”; fatto sta che la lettura avrà effetti sulla sua formazione. Sopraggiungeranno nel frattempo altre nevrosi come la dismorfofobia e quella che l’autrice ha definito, inventandola, vitafobia. Le voci sul suo conto iniziano a circolare, il peso di questa situazione e del nome, della reputazione della famiglia diventano un fardello troppo grande per due spalle gracili: essendo lui l’erede, verrà presto catapultato nel mondo dei pianoforti per imparare il mestiere e si ritroverà ancora molto giovane a capo dell’azienda di famiglia, alla morte del padre. Una parentesi felice di questa adolescenza travagliata è l’incontro con Marianne, figlia di alcuni vicini: entrambi innamorati l’uno dell’altro, nonostante Marianne si riveli molto devota ed esprima il desiderio di entrare in convento, saranno costretti a separarsi quando David deciderà di vendere l’azienda al braccio destro del padre: che vita può offrire a una giovane donna un uomo che non è capace di reggere le redini di un’azienda?
L’ultima cosa a cui volevo pensare era quanto fosse difficile essere una persona ed essere vivi.

Compiuti i diciotto anni David vola a Taiwan, e qui comincia un’altra storia. L’incontro con una cultura diversa dalla nostra avviene con la comparsa di Jia-Hui, figlia di una mama-san (capo di un bordello) e di un boss della criminalità organizzata, che si occupa di trovare ragazze da far lavorare nel locale della madre. Ha potere Jia-Hui nel suo mondo, ha il potere di far cambiare vita a giovani donne che spesso, molto spesso, scappavano da situazioni peggiori. I due si innamorano e tornano in America. Lei diventa Daisy, il suo agnellino orientale. Ma è amore? Proprio David scrive di essere stato ammaliato dall’esoticità di colei che diventa presto sua moglie; quell’attrazione per l’esotico, il lontano. La porta con sé come si fa con un souvenir. L’impatto con la Grande Mela viene reso perfettamente attraverso il rifiuto del cibo tipico americano di hamburger e patatine per esempio, che l’autrice non riesce a mandar giù tanto da cibarsi per alcuni giorni di solo latte anche per nutrire il bambino che porta in grembo; ancora, notiamo un grande cambiamento di una ragazza nata e vissuta con due tagliagole trasformarsi in una donna bisognosa quasi d’amore, di attenzioni. C’è però un altro tema molto importante che caratterizza questa parte e il rapporto tra i due ed è la lingua: nel capitolo in cui Daisy incontra la madre di David ci sono alcune linee al posto delle parole, un po’ come si usa fare nel gioco dell’impiccato; qui la differenza sta nella linea continua e non nei trattini. Non è un gioco a indovinare. Si svela in tutta la sua forza una mancanza difficile da colmare, quella dell’impossibilità di dialogo e quindi di comprensione che non è solo comprensione tra due persone, ma della realtà in cui vivi. I due non comunicano, fondano il loro rapporto su sensazioni, su vuoti da riempire, sulla fisicità. Come comprendere i bisogni dell’altro, come incontrarsi negli intenti, come scontrarsi nelle idee! Come può un luogo indecifrabile diventare casa! I pensieri si attorcigliano su se stessi e rimangono tali.
L’amore terreno non è un baluardo contro la solitudine.

Le nevrosi di David non sono mai sparite ma Daisy, di fronte alle ferite auto inferte e alla confusione, non abbandona suo marito. Dopo aver vissuto in albergo si trasferiscono a Polk Valley, California. Il desiderio di solitudine di David, lontano da bisbigli, sguardi di compassione e da altri addii, non è mai scomparso. Il trasferimento in una casa nel bosco sarà una scelta naturale, ma anche la casa e la famiglia non riescono a placarlo, salvo alcuni rari momenti. Nasce William e dopo poco tempo arriva Gillian, figlia di David ma non di Daisy, così simile al padre. La vita prosegue nell’isolamento del loro covo, nella paura che il peggio possa accadere e così chiede al marito di insegnarle a guidare nel caso dovesse servire.

Mi distruggeva dover stare sempre all’erta, non dire mai una parola che potesse essere interpretata come scortese, fare tutto quello che voleva lui, che mi andasse o meno, incoraggiarlo, proteggere i nostri bambini dalla sua follia eppure non riuscire nei miei patetici tentativi, sentirmi inutile, vivere con lui, amarlo, essere una moglie coscienziosa e sapere che non faceva alcuna differenza.

Fino a che. Ritorniamo così al principio ma questa volta non è David a raccontarsi. Daisy si ritrova da sola, a ripensare alle volte in cui avrebbe potuto andare via, tornare a Taiwan e lasciarsi la malattia alle spalle, la solitudine che l’amore non può cancellare, una vita che ha avuto solo pochi sprazzi di felicità, ma a senso unico. Lasciare quella famiglia allargata che non è più sua. Eppure era stata avvisata: David è pazzo. Ora è lei a dover prendere le redini, a dover andare in paese per comprare il cibo. Ricomincia a parlare la sua lingua con i bambini, cosa che David non voleva perché sono bambini americani e lui il mandarino non lo capisce. Qualcosa scatta in lei: Gillian deve diventare la tongyangxi di William. Questa pratica, tipica della Cina, è stata dichiarata fuori legge nel 1949 ma ha resistito a Taiwan più a lungo e può esser vista come un matrimonio combinato in cui una famiglia con un figlio maschio preadolescente adotta una figlia femmina di pari età o un po’ più piccola, allo scopo di farli crescere insieme, con la stessa disciplina e gli stessi ideali. Una volta pronti, i due si uniscono sessualmente e convolano a nozze per garantire la prosecuzione della stirpe. La giovane donna è destinata inoltre alla cura dei genitori adottivi. È il ruolo che di solito spetta alle figlie femmine, con l’aggravante di essere costretta a una vita non voluta, ma spesso l’unica possibile. Trasuda egoismo dal romanzo, possesso per paura di rimanere soli. Rinchiusi in un paradiso che diventa inferno, costruito su misura, da cui è impossibile fuggire per l’incapacità di vivere in un mondo che non si conosce, con regole e spazi e persone e. Il confine della loro casa non è solo fisico ma è diventato mentale, l’unico esistente e possibile. Ma non per Gillian, a cui vengono imposte regole molto dure. William accetta invece questo destino, desideroso di amarla. Che la follia sia ereditaria? Io credo che, come dice Marianne, ogni azione ha delle ripercussioni e quelle di David, volute o meno, hanno avuto delle conseguenze sulle scelte della famiglia, anche indirettamente vista la sua scomparsa quando i figli erano piccoli. L’isolamento, la costrizione entro certi confini mentali e fisici, le regole, la privazione di libertà che in Gillian si trasforma in sofferenza perché certa che ci siano altre realtà, il sentirsi lei destinata a un compito scelto da altri ne hanno minato la psiche. Si vuol parlare di follia? Nel confine di una casa che è diventata una prigione, la chiave è soltanto una.

Pubblicato precedentemente su Il Pickwick.

Viviana Calabria

Esmé Weijun Wang
Il confine del paradiso
traduzione di Thais Siciliano
pp. 414
Edizioni Lindau

La famiglia prima di tutto? | Ho fatto la spia

La famiglia è uno speciale destino. La famiglia in cui nasci e dalla quale non ci può essere scampo.

Ho fatto mia l’idea che il legame di sangue sia da intendere solo a livello biologico. Dall’altra parte, però, ho anche la convinzione che la famiglia sia qualcosa di più profondo di un nucleo di persone che risponde a certi vincoli di legame: la famiglia si fonda sul rispetto, sull’amore, sul sostegno e non c’è sangue, classe, identità, etnia che possa frenare un legame reale davanti a veri sentimenti. Così come non c’è sangue, classe, identità, etnia che tenga quando questi vengono a mancare. Ho fatto la spia rovescia il mio punto di vista e racconta di una famiglia per cui la biologia è un punto fermo, certo. Come punto fermo è del romanzo.

Il romanzo è diviso in tre parti che corrispondono a tre diverse fasi della vita della protagonista. La prima parte ricalca il racconto pubblicato nel 2003 con il titolo Curly red ed è, secondo me, la più riuscita e completa tanto da ritenerla un romanzo finito. Le parti successive diventano in qualche punto ripetitive, esagerano nel punire la protagonista con orrore su orrore mostrandola spesso troppo debole, arresa e arrendevole. Una violenza che dà l’idea di voler far leva su determinati sentimenti che fanno presa sul lettore. La pretesa di condensare tante tematiche, l’intera società americana e le sue contraddizioni in un solo libro. Nel finale si ravvisa l’intenzione di dare qualcosa che si avvicini alla serenità alla protagonista ma senza poter osare un vero lieto fine perché troppo è accaduto, ma era prevedibile.

Andiamo con ordine.

Parte I                                   

Via. Va’ all’inferno, topaccio!

Non avrai altre occasioni di fare la spia.

È vero, non ti sarà data un’altra occasione.

C’è solo quell’unica, la prima.

Topo come sinonimo di brutto, schifoso; topo da biblioteca; topo d’appartamento; morire come un topo, incastrati, senza via d’uscita. Qui topo assume un’accezione diversa, di persona che fa la spia, che svela segreti. Forse un significato proveniente dai Latini secondo cui nessun topo verrebbe mai catturato e ucciso se non tradisse la propria presenza con la sua voce stridula, quindi per colpa (sua). Topo è Violet, la piccola Vi’let Rue. La preferita di papà, più piccola di sette figli. Amata e voluta dalla madre perché ultima ad abbandonare la casa. Così credevano. All’età di 12 anni e sette mesi la piccola della famiglia viene esiliata. All’età di 12 anni e sette mesi cessa di essere una bambina. A posteriori ricorderà nitidamente un particolare di quella giornata del 1991, forse un avvertimento: l’acqua del fiume vicino casa del colore di melanzana marcia, di rifiuti, di topo che scava nei rifiuti, e ribollente come formato da serpenti in procinto di strisciare via, pieni di vergogna. I due fratelli maggiori, già colpevoli ma non accusati, di abusi ai danni di una ragazza affetta da ritardi, verranno arrestati per omicidio preterintenzionale ai danni di un giovane nero.

Non potevano averla fatta, una cosa così terribile, diventò Non l’hanno fatta, quella cosa terribile. Poiché Non può essere possibile diventò Non è possibile. Non era possibile. Poiché Non ci racconterebbero bugie diventò Non ci hanno raccontato bugie. I nostri figli.

Impossibile da accettare e quindi non vero. La colpa è degli altri, che vogliono accusarli perché bianchi, un “razzismo” al contrario. Se invece dovessero essere colpevoli, è solo difesa, il ragazzo nero era implicato in affari di droga, erano ubriachi. Giustificazioni. Attualità. L’arma del delitto, la mazza da baseball del maggiore Jerr, viene però ritrovata vicino casa grazie o per colpa di Vi’let. Il topo, la spiona. Sarà lei a confessare di aver visto i fratelli lavare una mazza da baseball la notte dell’aggressione, inconsciamente consapevole della loro colpa. La conseguenza più naturale per una famiglia come la loro è l’esilio: 13 anni lontana da casa, divorata dalla colpa di aver giurato di non tradire i fratelli e di non aver detto tutto al padre, di non aver chiesto scusa.

Non in teoria ma nella realtà una famiglia doveva, anzitutto, proteggere i propri membri. […] non ci si tradiva o abbandonava mai. Non andavi mai fuori dalla famiglia – questo era imperdonabile. Dentro la famiglia non mentivi mai quando contava davvero, né mai imbrogliavi.

Poche righe per dire tanto dei Kerrigan. Interessante è la figura del padre, Jerome, fondamentale nell’educazione dei figli e causa anche dei fatti accaduti anche se non in prima persona. Discende da una famiglia di immigrati irlandesi che all’epoca della loro venuta in America, e fino agli anni Cinquanta, venivano considerati stranieri, diversi alla stregua di italiani, greci ed ebrei. Un “diverso” che non ha remore ha mostrare il suo disprezzo per le “minoranze” e la sua superiorità di maschio. Jerome viene descritto come feroce, perfino il suo alito era feroce perché in realtà sapeva di whisky ma per la piccola Vi’let quello era solo odore di maschio. Una figura che condensa in sé maschilismo e patriarcato. Che crede nella necessità di fare da sé perché tutti vogliono fregarti in qualche modo; che il mondo sia «diviso con l’accetta» tra uomini e donne: amava le sue figlie ma soprattutto i suoi figli con cui era molto più duro perché dovevano imparare da lui l’integrità, la virilità. I figli maschi sono quattro, ma solo i due maggiori sono in realtà importanti nella storia per il loro ruolo nelle vicende. Finiranno per scontare la pena in un carcere di massima sicurezza ma soltanto il secondo, Lionel, riacquisterà la libertà dopo 13 anni. Le due femmine della famiglia sono costrette ad abbandonare la sorella per paura di essere esiliate o peggio. La madre, Lula, farà lo stesso. Una donna che da giovane aveva pulito le case dei ricchi e subito avance dal fratello del marito, che non sa niente del suo passato, non cederà di fronte al comportamento della sua piccola Violet. Giudicarne il comportamento non rientra nelle mie intenzioni, ma credo che una risposta la si possa dare conoscendo il nucleo familiare, trattata con disprezzo dal marito per la trasformazione subita dal corpo dopo le numerose gravidanze da lei volute come tiene a precisare il marito (l’interruzione non è contemplata tra i cristiani), costantemente messa da parte, e all’interno di quella società. Società in cui la donna accetta come naturale un mondo in cui l’uomo detiene il potere in senso ampio e nel privato, a cui ubbidire per una malsana forma di adorazione e per paura, consapevole della brutalità di cui un maschio è capace. Per Violet sarà lo stesso nei confronti del padre e dei due fratelli che non smetterà di ammirare nonostante. Violet, dopo un grave “incidente” casalingo non riesce più a tenere per sé il segreto e rivela tutto al preside della scuola e alla polizia, chiamata di tutta fretta. Viene portata per un breve periodo in una casa protetta perché casa sua non è un luogo sicuro.

Parte II

Violet va a vivere con la sorella minore della madre e il marito. La zia cerca in tutti i modi di farla sentire protetta ma non riuscirà mai a parlare con la nipote, a darle affetto perché da lei respinta, ritenuta anzi una donna debole. Nella nuova scuola è vittima di bullismo ma soprattutto di violenza reiterata. Il suo professore di matematica, non molto diverso dal padre, autoritario, seguace del nazismo, convinto della superiorità della razza e dell’uomo sulla donna, forte del suo ruolo e della sua conoscenza dei fatti dei Kerrigan, convince Violet della sua buona fede. Si mostra interessato a lei, alla sua incolumità, persino alla sua formazione per quanto le femmine non abbiano alcun motivo per dover imparare la matematica, e le offre lezioni private da tenere segrete. Gli abusi vengono perpetrati per sette mesi: lei non ne ha mai davvero contezza perché drogata. In tribunale non lo denuncia sia perché non ricorda molto di quanto accaduto sia perché lo ritiene il giusto prezzo da pagare per la sua colpa. Il castigo giusto, e nemmeno così orribile, per i suoi errori. Questa seconda parte non aggiunge niente alla prima, cambia il focus del romanzo portandolo su una nuova forma di violenza e sulla debolezza della donna ingenua, che si arrende. Calca troppo la mano, sviscera un argomento che andrebbe trattato diversamente, invece ricorda storie già lette e il professore, poi, ha delle somiglianze con Cesare Lombroso nel suo prendere le misure della sua “vittima”. Violet diventa anche oggetto del desiderio dello zio “mite” che, dapprima disgustato da quanto successo alla nipote, crede di poter fare lo stesso contando sul silenzio della giovane.

Parte III

Violet va via di casa dopo quanto accaduto con lo zio. Inizia a lavorare in una agenzia di pulizie e conosce Orlando Metti. Tenta ancora di mantenersi in vita come può, si attacca alla speranza di un cambiamento e accetta il gioco perverso e le attenzioni di questo cliente facoltoso. Ben presto l’uomo mostra la sua ossessione per il controllo e una gelosia malata, in fondo loro hanno un patto perché lei ha accettato regali e denaro. È sua, un oggetto con un prezzo. Sempre inferiore.

Il punto debole della donna, l’amore a prescindere. L’amore senza dubbi. O forse il desiderio di amore.


L’articolo è uscito sul blog di GoodBook.it.

Viviana Calabria

L’editore del mese | Intervista a Claudia Tarolo, editrice di Marcos y Marcos

Marcos y Marcos è una casa editrice indipendente milanese, fondata nel 1981 da due ragazzi, oggi gestita ancora da uno di loro, Marco Zapparoli, e da Claudia Tarolo. Questo ottobre Marcos y Marcos è il nostro “Editore del mese”: aiutati da alcuni book-blogger andremo alla scoperta del dietro le quinte della casa editrice e di alcuni dei loro libri di maggiore successo. Oggi intervisto proprio l’editrice Claudia Tarolo per conoscere più a fondo il loro catalogo, il loro ruolo nell’editoria e per svelarvi qualche anticipazione sui progetti futuri.

 

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Istanbul attraverso i libri/Parti con Goodbook

Istanbul è una città immensa, carica di miti. Ora piange, ora ride.
Un intreccio di microcosmi. Di tempi e luoghi. Di ricordi e speranze.
Di dita rovinate, di labbra di rosa, di sguardi segreti…

La casa sul Bosforo di Pinar Selek

Istanbul è una di quelle città sognate ma (ancora) mai visitate, che stimolano il mio immaginario di amante di nuovo e diverso.

Per questo viaggio letterario nella città Orhan Pamuk è stato mia guida d’eccezione, grazie ai suoi ricordi di una vita trascorsa tra quelle strade: “per cinquant’anni sempre nella stessa casa”, insieme ad altri autori turchi. Continua a leggere “Istanbul attraverso i libri/Parti con Goodbook”