Ho fatto la spia di Joyce Carol Oates

La famiglia è uno speciale destino. La famiglia in cui nasci e dalla quale non ci può essere scampo.

Ho fatto mia l’idea che il legame di sangue sia da intendere solo a livello biologico. Dall’altra parte, però, ho anche la convinzione che la famiglia sia qualcosa di più profondo di un nucleo di persone che risponde a certi vincoli di legame: la famiglia si fonda sul rispetto, sull’amore, sul sostegno e non c’è sangue, classe, identità, etnia che possa frenare un legame reale davanti a veri sentimenti. Così come non c’è sangue, classe, identità, etnia che tenga quando questi vengono a mancare. Ho fatto la spia rovescia il mio punto di vista e racconta di una famiglia per cui la biologia è un punto fermo, certo. Come punto fermo è del romanzo.

Il romanzo è diviso in tre parti che corrispondono a tre diverse fasi della vita della protagonista. La prima parte ricalca il racconto pubblicato nel 2003 con il titolo Curly red ed è, secondo me, la più riuscita e completa tanto da ritenerla un romanzo finito. Le parti successive diventano in qualche punto ripetitive, esagerano nel punire la protagonista con orrore su orrore mostrandola spesso troppo debole, arresa e arrendevole. Una violenza che dà l’idea di voler far leva su determinati sentimenti che fanno presa sul lettore. La pretesa di condensare tante tematiche, l’intera società americana e le sue contraddizioni in un solo libro. Nel finale si ravvisa l’intenzione di dare qualcosa che si avvicini alla serenità alla protagonista ma senza poter osare un vero lieto fine perché troppo è accaduto, ma era prevedibile.

Andiamo con ordine.

Parte I                                   

Via. Va’ all’inferno, topaccio!

Non avrai altre occasioni di fare la spia.

È vero, non ti sarà data un’altra occasione.

C’è solo quell’unica, la prima.

Topo come sinonimo di brutto, schifoso; topo da biblioteca; topo d’appartamento; morire come un topo, incastrati, senza via d’uscita. Qui topo assume un’accezione diversa, di persona che fa la spia, che svela segreti. Forse un significato proveniente dai Latini secondo cui nessun topo verrebbe mai catturato e ucciso se non tradisse la propria presenza con la sua voce stridula, quindi per colpa (sua). Topo è Violet, la piccola Vi’let Rue. La preferita di papà, più piccola di sette figli. Amata e voluta dalla madre perché ultima ad abbandonare la casa. Così credevano. All’età di 12 anni e sette mesi la piccola della famiglia viene esiliata. All’età di 12 anni e sette mesi cessa di essere una bambina. A posteriori ricorderà nitidamente un particolare di quella giornata del 1991, forse un avvertimento: l’acqua del fiume vicino casa del colore di melanzana marcia, di rifiuti, di topo che scava nei rifiuti, e ribollente come formato da serpenti in procinto di strisciare via, pieni di vergogna. I due fratelli maggiori, già colpevoli ma non accusati, di abusi ai danni di una ragazza affetta da ritardi, verranno arrestati per omicidio preterintenzionale ai danni di un giovane nero.

Non potevano averla fatta, una cosa così terribile, diventò Non l’hanno fatta, quella cosa terribile. Poiché Non può essere possibile diventò Non è possibile. Non era possibile. Poiché Non ci racconterebbero bugie diventò Non ci hanno raccontato bugie. I nostri figli.

Impossibile da accettare e quindi non vero. La colpa è degli altri, che vogliono accusarli perché bianchi, un “razzismo” al contrario. Se invece dovessero essere colpevoli, è solo difesa, il ragazzo nero era implicato in affari di droga, erano ubriachi. Giustificazioni. Attualità. L’arma del delitto, la mazza da baseball del maggiore Jerr, viene però ritrovata vicino casa grazie o per colpa di Vi’let. Il topo, la spiona. Sarà lei a confessare di aver visto i fratelli lavare una mazza da baseball la notte dell’aggressione, inconsciamente consapevole della loro colpa. La conseguenza più naturale per una famiglia come la loro è l’esilio: 13 anni lontana da casa, divorata dalla colpa di aver giurato di non tradire i fratelli e di non aver detto tutto al padre, di non aver chiesto scusa.

Non in teoria ma nella realtà una famiglia doveva, anzitutto, proteggere i propri membri. […] non ci si tradiva o abbandonava mai. Non andavi mai fuori dalla famiglia – questo era imperdonabile. Dentro la famiglia non mentivi mai quando contava davvero, né mai imbrogliavi.

Poche righe per dire tanto dei Kerrigan. Interessante è la figura del padre, Jerome, fondamentale nell’educazione dei figli e causa anche dei fatti accaduti anche se non in prima persona. Discende da una famiglia di immigrati irlandesi che all’epoca della loro venuta in America, e fino agli anni Cinquanta, venivano considerati stranieri, diversi alla stregua di italiani, greci ed ebrei. Un “diverso” che non ha remore ha mostrare il suo disprezzo per le “minoranze” e la sua superiorità di maschio. Jerome viene descritto come feroce, perfino il suo alito era feroce perché in realtà sapeva di whisky ma per la piccola Vi’let quello era solo odore di maschio. Una figura che condensa in sé maschilismo e patriarcato. Che crede nella necessità di fare da sé perché tutti vogliono fregarti in qualche modo; che il mondo sia «diviso con l’accetta» tra uomini e donne: amava le sue figlie ma soprattutto i suoi figli con cui era molto più duro perché dovevano imparare da lui l’integrità, la virilità. I figli maschi sono quattro, ma solo i due maggiori sono in realtà importanti nella storia per il loro ruolo nelle vicende. Finiranno per scontare la pena in un carcere di massima sicurezza ma soltanto il secondo, Lionel, riacquisterà la libertà dopo 13 anni. Le due femmine della famiglia sono costrette ad abbandonare la sorella per paura di essere esiliate o peggio. La madre, Lula, farà lo stesso. Una donna che da giovane aveva pulito le case dei ricchi e subito avance dal fratello del marito, che non sa niente del suo passato, non cederà di fronte al comportamento della sua piccola Violet. Giudicarne il comportamento non rientra nelle mie intenzioni, ma credo che una risposta la si possa dare conoscendo il nucleo familiare, trattata con disprezzo dal marito per la trasformazione subita dal corpo dopo le numerose gravidanze da lei volute come tiene a precisare il marito (l’interruzione non è contemplata tra i cristiani), costantemente messa da parte, e all’interno di quella società. Società in cui la donna accetta come naturale un mondo in cui l’uomo detiene il potere in senso ampio e nel privato, a cui ubbidire per una malsana forma di adorazione e per paura, consapevole della brutalità di cui un maschio è capace. Per Violet sarà lo stesso nei confronti del padre e dei due fratelli che non smetterà di ammirare nonostante. Violet, dopo un grave “incidente” casalingo non riesce più a tenere per sé il segreto e rivela tutto al preside della scuola e alla polizia, chiamata di tutta fretta. Viene portata per un breve periodo in una casa protetta perché casa sua non è un luogo sicuro.

Parte II

Violet va a vivere con la sorella minore della madre e il marito. La zia cerca in tutti i modi di farla sentire protetta ma non riuscirà mai a parlare con la nipote, a darle affetto perché da lei respinta, ritenuta anzi una donna debole. Nella nuova scuola è vittima di bullismo ma soprattutto di violenza reiterata. Il suo professore di matematica, non molto diverso dal padre, autoritario, seguace del nazismo, convinto della superiorità della razza e dell’uomo sulla donna, forte del suo ruolo e della sua conoscenza dei fatti dei Kerrigan, convince Violet della sua buona fede. Si mostra interessato a lei, alla sua incolumità, persino alla sua formazione per quanto le femmine non abbiano alcun motivo per dover imparare la matematica, e le offre lezioni private da tenere segrete. Gli abusi vengono perpetrati per sette mesi: lei non ne ha mai davvero contezza perché drogata. In tribunale non lo denuncia sia perché non ricorda molto di quanto accaduto sia perché lo ritiene il giusto prezzo da pagare per la sua colpa. Il castigo giusto, e nemmeno così orribile, per i suoi errori. Questa seconda parte non aggiunge niente alla prima, cambia il focus del romanzo portandolo su una nuova forma di violenza e sulla debolezza della donna ingenua, che si arrende. Calca troppo la mano, sviscera un argomento che andrebbe trattato diversamente, invece ricorda storie già lette e il professore, poi, ha delle somiglianze con Cesare Lombroso nel suo prendere le misure della sua “vittima”. Violet diventa anche oggetto del desiderio dello zio “mite” che, dapprima disgustato da quanto successo alla nipote, crede di poter fare lo stesso contando sul silenzio della giovane.

Parte III

Violet va via di casa dopo quanto accaduto con lo zio. Inizia a lavorare in una agenzia di pulizie e conosce Orlando Metti. Tenta ancora di mantenersi in vita come può, si attacca alla speranza di un cambiamento e accetta il gioco perverso e le attenzioni di questo cliente facoltoso. Ben presto l’uomo mostra la sua ossessione per il controllo e una gelosia malata, in fondo loro hanno un patto perché lei ha accettato regali e denaro. È sua, un oggetto con un prezzo. Sempre inferiore.

Il punto debole della donna, l’amore a prescindere. L’amore senza dubbi. O forse il desiderio di amore.


L’articolo è uscito sul blog di GoodBook.it.

Profilo dell’autore: Hamlin Garland

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«Non sono mai stata via di casa una notte, nei tredici anni che siamo stati in questa fattoria, e fu lo stesso in quegli altri dieci che passammo a Davis. Per ventitré anni, Ethan Ripley, sono rimasta inchiodata alla stufa della cucina e alla zangola senza un giorno o una notte di libertà.»

Hamlin Garland nacque nel 1860 nel Wisconsin, in una fattoria a West Salem. Come il padre, anche lui lavorò la terra, ma si appassionò alla letteratura tanto da frequentare il college.

Nel 1884, una volta venduto un lotto di terra, decise di andare a Boston dove divenne un insegnante così da potersi dedicare alla lettura: “Dai miei pasti ritornavo al mio tavolo in biblioteca e leggevo fino all’ora di chiusura…”

Joseph Edgar Chamberlin lo descrisse, all’epoca, come un uomo di grande bellezza e singolarità, giovane ma con un peso sullo spalle dovuto ad anni di studio; infatti partecipò a conferenze e insegnò letteratura.

Il 1887 fu un anno di svolta per Garland: l’amicizia con Howells lo convinse a scrivere e tornò dai genitori nel Middle West. È allora che la vita della fattoria e dei contadini si presentò a lui in tutta la crudezza, la stanchezza e la povertà. Presero forma i racconti contenuti in “Main-Travelled Roads” (Racconti dal Mississippi) e in “Prairie Folks”, certamente il punto più alto della sua opera insieme all’autobiografia “A Son of the Middle Border”, una sorta di ribellione nei confronti di quella vita. Sviscerati completamente i temi a lui cari, raggiunta una certa sicurezza economica, iniziò a scrivere romanzi di diverso registro e di minore fortuna e intensità.

Ma qual era l’idea di narrativa di Hamlin Garland?4c884ecdc70a7.image.jpg

Credeva che bisognasse superare i classici per rinvigorire la letteratura americana, e credeva nell’obiettività della vita reale “anche a costo di essere impietosa, cioè a costo di considerare gli aspetti più squallidi della vita”. Questo realismo fu da lui chiamato “veritismo”:

“Scrivete di quelle cose che conoscete meglio e che vi stanno più a cuore.
Facendo così sarete fedeli a voi stessi, fedeli al vostro paese, fedeli al vostro tempo.”

Il veritista non ha bisogno di modelli perché guarda e descrive la realtà, la natura e la vita. Deve dire sempre la verità, e per farlo deve raccontare anche il dolore e la miseria. Ma sono solo le persone sane a essere descritte, i valori sani, escludendo persone malate, violenze, vizi e sensualità.

I racconti di Garland, scritti con uno stile semplice e senza fronzoli in cui a far da padrone è l’influenza dell’ambiente sui personaggi, vengono presentati da Howells come “historical fiction” perché sono una cronaca della disfatta, delle privazioni e delle difficoltà dei pionieri che colonizzarono i terreni del Middle West.


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Tutte le tappe:

👉venerdì 2 febbraio, 1° tappa: Reader for blind -> La storia editoriale;
👉giovedì 8 febbraio, 2° tappa: I calzini spaiati/Veronica Giuffré -> Video lettura;
👉giovedì 15 febbraio: 3° Tappa: Emozioni in font/Viviana Calabria -> Profilo dell’autore;
👉giovedì 22 febbraio: 4° Tappa: Reader For Blind -> Il racconto Una strada secondaria;
👉giovedì 1 marzo: 5° Tappa: Sotto la copertina (Ornella Soncini/Lucrezia Pei) -> InstaScroll;
👉martedì 6 marzo: 6° tappa: Martina Marzadori -> video commento sulla creazione della cover;
👉sabato 17 marzo: 7° tappa: Libreria I Trapezisti -> Presentazione del libro!

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Ritrovare se stessi/A caccia nei sogni

Come fratelli cresciuti insieme, affrontarono la questione serissima dei genitori che si comportano in modo bizzarro e dei figli che cercano di reagire come meglio possono.

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Se in La fine dei vandalismi Tom Drury ha poggiato lo sguardo su una umanità tanto variegata, A caccia nei sogni ci permette di conoscere meglio le vite di una famiglia poco convenzionale da una parte, assolutamente tipica dall’altra.

Lo sguardo dell’autore si restringe su Tiny Darling, l’ex marito di Louise nonché uomo poco raccomandabile, che si fa chiamare Charles. Ha abbandonato il suo nomignolo per riacquistare la sua identità, il nome da uomo. È sposato con Joan adesso, e con lei ha un figlio, Micah. In famiglia, oltre al fratello Jerry che si innamorerà di una ragazzina, farà la sua apparizione Lyris, figlia di Joan, da lei abbandonata quando era piccolina.

A volte ho l’impressione che quello che dovrei diventare sia scritto sulla parete di fondo dell’universo e che si stia allontanando da me alla velocità della luce.

Drury ci racconta di vite semplici, insignificanti se guardate nell’insieme ma importanti perché sono vicine a ognuno di noi. Ci parla di insoddisfazioni, di dolori e di scelte.

Charles, pur rimanendo un uomo capace di rubare e di farlo con piacere, mostra il suo lato tenero e dolce con la figliastra Lyris, dimostrandole un affetto da padre: “Il meglio che possiamo fare è ricordarci l’uno dell’altro e, per amore del cielo, fare una telefonata quando vediamo che è tardi”. Insieme a lui seguiremo il suo animo ferito per la lontananza di una moglie che tanto gli aveva dato e per essersi reso conto tardi di aver lasciato andare una persona importante, senza aver fatto nulla per dimostrarle amore.

Joan riprende con sé la figlia abbandonata incapace di darle una spiegazione. È una donna confusa, disillusa, angosciata per un mondo in cui “un ragazzo spara al suo migliore amico” e bisognosa di ritrovare la sua luce nella notte della contea. Neanche il desiderio riuscirà a riportarle serenità; come Louise, deciderà di allontanarsi dalla sua famiglia abbandonando i figli, convinta che “la sua famiglia l’avrebbe aspettata. Joan agiva sulla base della frequente illusione secondo cui, in sua assenza, la vita delle persone a lei vicine avrebbe assunto un andamento circolare”.

Micah, un bambino che ha paura del buio della sua casa ma non quello della contea, silenziosa e solitaria ma illuminata dalla luna e dai lampioni. Non ha paura di girare da solo, ma sente su di sé il peso di una situazione che lui non comprende, e la mancanza della madre in casa fa vacillare le sue certezze.

E infine Lyris, la giovane donna che è stata affidata a più famiglie, girando come una trottola, per poi ritrovarsi dalla madre biologica che l’aveva rifiutata e da cui ben poco si sente amata. Ma è meglio di niente, poter fermarsi finalmente in un posto, ancora meglio se può essere chiamato casa.

Forse qualche residuo dei pensieri di Joan era rimasto impigliato tra i suoi vecchi abiti, e la mente di Lyris sarebbe riuscita ad assorbirlo. A quel punto, magari, avrebbe potuto capire.

Tom Drury non perde la sua prerogativa di utilizzare un linguaggio quanto meno emozionale possibile, lasciando poche frasi a significare il tutto, sentimenti, emozioni e stati d’animo. Ci parla di amori finiti o di momenti di stasi, di tristezza del cuore e sentimenti di impotenza. Di dubbi, di errori, di egoismo ma soprattutto di mancanza di comunicazione. Non lascia sgorgare parole che possano raggiungere un climax, generare pietismo o lasciare il lettore alla sua personale visione. È un dolore pacato, intimo, che turba il cuore ma che non si lascia scoprire da un osservatore esterno, e che trova risposta, forse solo nei sogni. A caccia nei sogni.


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Tom Drury
A caccia nei sogni
NN Editore
Traduttore: Gianni Pannofino
Pagine 240
18,00 €
ISBN: 978-88-99253-69-1
In libreria da: 02-11-2017

Squarci di vite ordinarie/La fine dei vandalismi

Le dicerie possono durare a lungo a Grouse County oppure riproporsi ciclicamente,
come le stagioni.

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Quando sento pronunciare la parola America la mia fantasia inizia a lavorare incessantemente. Non sono le grandi città ad attirarmi verso quel paese così tanto discusso, ma quei piccoli stati in cui, si dice, non ci sia nulla. L’Iowa fa parte del mio immaginario da sogno: prati infiniti, chiesette, alberi e villette a due piani con grandi finestre e porticati in cui sostare nelle sere d’estate, su un dondolo. Un po’ influenzata dai film un po’ affascinata da un tipo di vita così diversa dalla nostra, leggere di Stati Uniti, per me, è anche un po’ esserci.

In Grouse County ho ritrovato questa familiarità di paesaggi e di stili di vita. I personaggi creati dalla penna di Tom Drury si muovono in una contea, questo piccolo spazio che dà l’idea di essere chiuso in se stesso, un po’ svagati e sempre con la lentezza che caratterizza luoghi piccoli e di provincia, in cui le dicerie e le voci si diffondono con il vento.

Si avverte quell’intimità familiare, come entrare in ogni casa e sedere al tavolo del soggiorno a bere una tazza di tè, prendendo parte alla giornata tipo di ognuno di loro. È facile, così, ritrovarsi tra i battibecchi di una coppia o a estenuanti riunioni, assistere al fallimento di un negozio o a una esercitazione dei pompieri, più bravi a spegnere gli incendi da loro appiccati per esercitazione. Ci si trova di fronte a una grande comunità di persone così diverse ma in grado di vivere la semplicità di quella vita che gli si offre. Tom Drury mette in scena una rappresentazione quasi grottesca del passare del tempo, dando a ogni personaggio una sua caratterizzazione tra l’ordinario e il bizzarro, senza che questi due elementi possano essere distinti. Si fa presto a sentirsi a casa e a non considerare pazzie dialoghi e comportamenti che ben poco rientrano nella normalità di ognuno di noi, e anche nei romanzi a cui siamo abituati.

Definirlo romanzo corale non è esatto: ognuno ha la sua voce e il suo ruolo, qualcuno ritorna mentre altri vengono lasciati indietro con il loro pezzetto di storia. Tutti lavorano per dare l’idea di comunità, ma ci sono Louise, Tiny, Dan e Mary che si impongono su tutti.
Tiny, all’inizio ladruncolo e vandalo, divorzierà da Louise iniziando un percorso per ritrovare una identità e comprendere quanto quella donna fosse parte di sé.
Mary, la madre di Louise, con cui condividerà piccoli momenti familiari e litigi, ma che non si tirerà indietro nel momento del bisogno.
Louise e Dan, amici, amanti e poi marito e moglie, condivideranno piccole gioie e grandi dolori.

La gente si domandava che cosa ci trovasse Louise in uno come Dan. Ovviamente, lui aveva i suoi pregi. Forse non era particolarmente efficace nella lotta contro il crimine, ma nella maggior parte delle situazioni si comportava in maniera apprezzabile, cosa di cui non tutti i tutori dell’ordine sono capaci. […] La domanda riguardava soprattutto Louise, che si era fatta una certa fama di persona avulsa dal paese e dai relativi affari.

Ogni evento verrà descritto con una asciuttezza di stile sorprendente e spiazzante; nessuna parola di troppo o sbavatura nei dialoghi, non si avverte quasi il senso di angoscia o di agitazione che i personaggi vivono nelle difficoltà di tutti i giorni o in quelle più dure. Pochi passaggi, brevi frasi o la descrizione del cielo riescono a racchiudere sentimenti individuali e universali.

I colori erano vividi e veri, ma in qualche modo loro due sentivano che stavano osservando il panorama senza più riuscire a farne parte.

Solo in un momento l’autore si dilunga su un evento che colpisce Dan e Louise, concentrando l’attenzione su di loro anche quando a parlare sono personaggi di contorno. Racconta senza struggimento, senza aggettivi che servano a quantificare il dolore, non vuole creare pathos o angoscia. Dà l’idea di essere un osservatore posto di lato alla scena, esterno ma vicino al dolore. Quasi come se volesse lasciare ai personaggi il tempo di elaborare, racchiudendo la sofferenza in una bolla trasparente, visibile agli altri ma non penetrabile. In questo il suo stile riesce perfettamente a far penetrare la vicenda nell’immaginario e nel cuore del lettore con facilità e naturalezza.

Non mise via la culla né trasformò la camera della bambina in una stanza di servizio. La gente, anche gente che lei non conosceva bene, si offriva di portar via le cose della bambina, intendendo che qualcuno doveva pur farlo. Lei pensò che un tempo doveva essere una consuetudine, perché le madri, di certo, non se la sentivano di farlo. Tuttavia, le coperte e la sedia a dondolo, la culla e il comò erano la sola prova concreta del fatto che una bambina, a un certo punto, c’era stata.


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Tom Drury
La fine dei vandalismi
NNEDITORE
Traduttore: Gianni Pannofino
ISBN: 978-88-99253-55-4
Pagine 400
16,15 €