Confini fisici e mentali nell’opera di Esmé Weijun Wang

“Una prigione diventa casa se possiedi la chiave”
 George Sterling

Non volevo farla finita vicino a casa, dove avrebbe potuto trovarmi mia moglie, oppure, ed è ancora più terribile pensarci, i miei figli. […]. Non ho fatto altro che causare problemi a tutti e tre, e la cosa peggiore è che mi amavano lo stesso; e quindi non so proprio come questo possa essere altro che un tradimento e un’ingiustizia.

Siamo di fronte a una certezza, quella che caratterizza tutti noi: la morte. Il confine del paradiso di Esmé Weijung Wang comincia dagli ultimi attimi di vita di David, dal suo biglietto d’addio, a dimostrazione di come quell’evento sia un punto fondamentale della storia, di quanto lui sia uno spartiacque tra due vite.
Primo romanzo della scrittrice statunitense nata da genitori taiwanesi, consta di quattro parti e segue la cronologia degli avvenimenti ma alterna i punti di vista: tranne per la prima in cui a raccontare è David, nelle altre i capitoli vengono alternati tra i diversi personaggi principali di quel lasso di tempo e questo permette di indagare a fondo pensieri e azioni.
Tutto ha inizio con i Novak, una famiglia di ebrei polacchi emigrati in America in cerca di fortuna. La fortuna la trovano, il sogno americano si avvera: fondano la Novak Piano Company che prima della guerra conosce una grande fortuna, pari ai celebri pianoforti Steinway. Con la guerra e la conseguente instabilità la musica cambia per gli affari, ma la loro apparente tranquillità non muta. Presto David inizia a dare sfogo a quelle che si rivelano nevrosi: attribuiva ai suoi pupazzi un’anima e quando uno di questi subiva deterioramento, lui arrivava ad avere attacchi di panico.

Racconta che il suo primo incontro con il suicidio risale alla lettura di L’uomo che amava i lupi di William P. Harding, gesto che “non riusciva proprio a capire”; fatto sta che la lettura avrà effetti sulla sua formazione. Sopraggiungeranno nel frattempo altre nevrosi come la dismorfofobia e quella che l’autrice ha definito, inventandola, vitafobia. Le voci sul suo conto iniziano a circolare, il peso di questa situazione e del nome, della reputazione della famiglia diventano un fardello troppo grande per due spalle gracili: essendo lui l’erede, verrà presto catapultato nel mondo dei pianoforti per imparare il mestiere e si ritroverà ancora molto giovane a capo dell’azienda di famiglia, alla morte del padre. Una parentesi felice di questa adolescenza travagliata è l’incontro con Marianne, figlia di alcuni vicini: entrambi innamorati l’uno dell’altro, nonostante Marianne si riveli molto devota ed esprima il desiderio di entrare in convento, saranno costretti a separarsi quando David deciderà di vendere l’azienda al braccio destro del padre: che vita può offrire a una giovane donna un uomo che non è capace di reggere le redini di un’azienda?
L’ultima cosa a cui volevo pensare era quanto fosse difficile essere una persona ed essere vivi.

Compiuti i diciotto anni David vola a Taiwan, e qui comincia un’altra storia. L’incontro con una cultura diversa dalla nostra avviene con la comparsa di Jia-Hui, figlia di una mama-san (capo di un bordello) e di un boss della criminalità organizzata, che si occupa di trovare ragazze da far lavorare nel locale della madre. Ha potere Jia-Hui nel suo mondo, ha il potere di far cambiare vita a giovani donne che spesso, molto spesso, scappavano da situazioni peggiori. I due si innamorano e tornano in America. Lei diventa Daisy, il suo agnellino orientale. Ma è amore? Proprio David scrive di essere stato ammaliato dall’esoticità di colei che diventa presto sua moglie; quell’attrazione per l’esotico, il lontano. La porta con sé come si fa con un souvenir. L’impatto con la Grande Mela viene reso perfettamente attraverso il rifiuto del cibo tipico americano di hamburger e patatine per esempio, che l’autrice non riesce a mandar giù tanto da cibarsi per alcuni giorni di solo latte anche per nutrire il bambino che porta in grembo; ancora, notiamo un grande cambiamento di una ragazza nata e vissuta con due tagliagole trasformarsi in una donna bisognosa quasi d’amore, di attenzioni. C’è però un altro tema molto importante che caratterizza questa parte e il rapporto tra i due ed è la lingua: nel capitolo in cui Daisy incontra la madre di David ci sono alcune linee al posto delle parole, un po’ come si usa fare nel gioco dell’impiccato; qui la differenza sta nella linea continua e non nei trattini. Non è un gioco a indovinare. Si svela in tutta la sua forza una mancanza difficile da colmare, quella dell’impossibilità di dialogo e quindi di comprensione che non è solo comprensione tra due persone, ma della realtà in cui vivi. I due non comunicano, fondano il loro rapporto su sensazioni, su vuoti da riempire, sulla fisicità. Come comprendere i bisogni dell’altro, come incontrarsi negli intenti, come scontrarsi nelle idee! Come può un luogo indecifrabile diventare casa! I pensieri si attorcigliano su se stessi e rimangono tali.
L’amore terreno non è un baluardo contro la solitudine.

Le nevrosi di David non sono mai sparite ma Daisy, di fronte alle ferite auto inferte e alla confusione, non abbandona suo marito. Dopo aver vissuto in albergo si trasferiscono a Polk Valley, California. Il desiderio di solitudine di David, lontano da bisbigli, sguardi di compassione e da altri addii, non è mai scomparso. Il trasferimento in una casa nel bosco sarà una scelta naturale, ma anche la casa e la famiglia non riescono a placarlo, salvo alcuni rari momenti. Nasce William e dopo poco tempo arriva Gillian, figlia di David ma non di Daisy, così simile al padre. La vita prosegue nell’isolamento del loro covo, nella paura che il peggio possa accadere e così chiede al marito di insegnarle a guidare nel caso dovesse servire.
Mi distruggeva dover stare sempre all’erta, non dire mai una parola che potesse essere interpretata come scortese, fare tutto quello che voleva lui, che mi andasse o meno, incoraggiarlo, proteggere i nostri bambini dalla sua follia eppure non riuscire nei miei patetici tentativi, sentirmi inutile, vivere con lui, amarlo, essere una moglie coscienziosa e sapere che non faceva alcuna differenza.
Fino a che. Ritorniamo così al principio ma questa volta non è David a raccontarsi. Daisy si ritrova da sola, a ripensare alle volte in cui avrebbe potuto andare via, tornare a Taiwan e lasciarsi la malattia alle spalle, la solitudine che l’amore non può cancellare, una vita che ha avuto solo pochi sprazzi di felicità, ma a senso unico. Lasciare quella famiglia allargata che non è più sua. Eppure era stata avvisata: David è pazzo. Ora è lei a dover prendere le redini, a dover andare in paese per comprare il cibo. Ricomincia a parlare la sua lingua con i bambini, cosa che David non voleva perché sono bambini americani e lui il mandarino non lo capisce. Qualcosa scatta in lei: Gillian deve diventare la tongyangxi di William. Questa pratica, tipica della Cina, è stata dichiarata fuori legge nel 1949 ma ha resistito a Taiwan più a lungo e può esser vista come un matrimonio combinato in cui una famiglia con un figlio maschio preadolescente adotta una figlia femmina di pari età o un po’ più piccola, allo scopo di farli crescere insieme, con la stessa disciplina e gli stessi ideali. Una volta pronti, i due si uniscono sessualmente e convolano a nozze per garantire la prosecuzione della stirpe. La giovane donna è destinata inoltre alla cura dei genitori adottivi. È il ruolo che di solito spetta alle figlie femmine, con l’aggravante di essere costretta a una vita non voluta, ma spesso l’unica possibile. Trasuda egoismo dal romanzo, possesso per paura di rimanere soli. Rinchiusi in un paradiso che diventa inferno, costruito su misura, da cui è impossibile fuggire per l’incapacità di vivere in un mondo che non si conosce, con regole e spazi e persone e. Il confine della loro casa non è solo fisico ma è diventato mentale, l’unico esistente e possibile. Ma non per Gillian, a cui vengono imposte regole molto dure. William accetta invece questo destino, desideroso di amarla. Che la follia sia ereditaria? Io credo che, come dice Marianne, ogni azione ha delle ripercussioni e quelle di David, volute o meno, hanno avuto delle conseguenze sulle scelte della famiglia, anche indirettamente vista la sua scomparsa quando i figli erano piccoli. L’isolamento, la costrizione entro certi confini mentali e fisici, le regole, la privazione di libertà che in Gillian si trasforma in sofferenza perché certa che ci siano altre realtà, il sentirsi lei destinata a un compito scelto da altri ne hanno minato la psiche. Si vuol parlare di follia? Nel confine di una casa che è diventata una prigione, la chiave è soltanto una.


Esmé Weijun Wang
Il confine del paradiso
traduzione Thais Siciliano
pp. 414
Edizioni Lindau, Torino, 2018

*Pubblicato su IlPickwick.

Tolstoj tra romanzo e vita privata/La felicità domestica

“Ma la nostra vita non riuscì però inferiore ai nostri sogni. Non austerità di lavoro, compimento del dovere, sacrificio di se medesimi, vita per gli altri – quello insomma che io immaginavo da fidanzata; al contrario, c’era un solo egoistico sentimento di amore l’uno per l’altro, un desiderio di essere amati, una costante giocondità senza perché, e oblìo d’ogni cosa al mondo.”

La felicità domestica di Lev Nikolaevic Tolstoj, pubblicato per la prima volta nel 1859,  dieci anni prima del più celebre “Guerra e pace”, oggi viene riproposto da Fazi nella traduzione di Clemente Rebora.

Non so bene come parlarvi di questo libro: innanzitutto reputo importante la lettura del testo in questione per conoscere scrittura e tematiche dell’autore prima di giungere alle sue opere più note e ambiziose. In secondo luogo, consiglio il libro a chi ama i personaggi femminili e le storie incentrata sulla psicologia dei personaggi più che sulla descrizione di vicende: non vi sono, infatti, colpi di scena o situazioni di una certa importanza.

Pur non potendo dirmi soddisfatta della lettura perché la trama mi è risultata troppo semplice, anche forzata in alcuni punti (un innamoramento nato dal nulla, una rabbia quasi eccessiva tra i due che si appoggia su discussioni quasi assurde), ritengo sia interessante la visione dell’amore e del matrimonio di Tolstoj, che si ritroverà nei suoi lavori successivi e nella sua vicenda personale.

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Da quel giorno ebbe termine il romanzo di me con mio marito. L’antico sentimento si è ridotto a una cara rimembranza di cosa senza ritorno, mentre un nuovo sentimento di amore verso i bambini, e verso il padre dei miei bambini, ha segnato l’inizio di un’altra vita, ma ormai ben altrimenti felice, nella quale io migro ancora al momento attuale…”

Maŝa, giovane di 17 anni orfana, vive in campagna con la sorella più piccola. A stravolgere il suo stato di profonda solitudine e tristezza giungerà Sergèj Michàjlic, tutore e grande amico del padre, che si innamorerà di lei. La stessa Masa, nonostante la differenza di età e la scarsa frequentazione con lui, si innamorerà a sua volta. I due si sposeranno poco dopo per poi trasferisci nella casa della madre di lui, sempre in campagna. Dopo un iniziale periodo felice, arriveranno per Maŝa lunghi mesi di noia e solitudine che verranno compresi dal marito, tanto da spingerlo a trasferirsi con la moglie a Pietroburgo. Qui avverrà il vero distacco della coppia poiché Maŝa inizierà a far vita mondana, una vita che il marito detesta anche per le relazione che si creano, assolutamente false e di facciata. Inizierà per i due un periodo di silenzi, occhiate furtive e di tristezza nonostante la nascita di due figli. Maŝa deciderà di tornare in campagna sperando di poter recuperare l’amore del marito.

Questione di età, di idee e di esperienza. Maŝa e Sergej hanno vent’anni di differenza: lui è ormai un uomo adulto, con tutte le sue esperienze di vita, con una certa conoscenza di amore e matrimonio; un uomo che ha solo voglia di una vita tranquilla tra la natura, una moglie al suo fianco dedita alla famiglia e alla casa, che viva quindi per gli altri.
Maŝa è giovane, è bella, sta muovendo i primi passi in una nuova vita, in una città ricca; ha ragione di non voler perdere alcuna occasione di conoscere e sperimentare, di riempirsi gli occhi delle novità del mondo. Non aveva mai amato prima ma certamente la sua idea di questo sentimento e del matrimonio era idilliaca: passione, gioco, complicità. Sentir venire meno in poco tempo questo tipo di rapporto genera in lei tristezza, desolazione e sensi di colpa verso un marito a cui si è votata, per cui si mostra in società, accudisce e compiace suonando e leggendo in un continuo desiderio di migliorarsi per compiacere colui che, più che marito, appare sino alla fine come un tutore. Un innamoramento che non sfocerà mai in amore, ma in affetto, in una necessità di compagnia da parte di lui. Nulla tornerà come prima. Tutto l’amore si riverserà sui figli e lui diventerà solo il padre dei suoi bambini.

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La lettura mi ha incuriosito e portato a far ricerche, permettendo di intrufolarmi nel privato del suo autore.

Ma cosa c’entra la vita privata di Tolstoj? Egli sposò Sof’ja Tolstaja nel 1862, quando lei aveva 18 anni e lui 34, dopo una settimana di fidanzamento. La donna sarà costretta a trasferirsi in campagna dopo aver passato l’adolescenza a Mosca, stravolgendo il suo stile di vita, ora monotono e noioso. I 48 anni vissuti insieme saranno costellati dalla nascita di 13 figli e numerosi litigi. Diverse sono le voci che girano sui due, anche in seguito alla pubblicazione dei diari di Sof’ja. Pare che soffrisse da sempre di paranoie, tanto che alla fuga di lui tentò anche di suicidarsi. Fu una donna che offrì se stessa al marito, totalmente, mettendo da parte sogni e ambizioni per dedicarsi alla casa, ai figli e alla riscrittura dei manoscritti di Tolstoj, attività che la appassionò molto.
I litigi in casa erano all’ordine del giorno e riguardavano la gelosia, pare che Tolstoj le fece leggere i suoi diari appena sposati in cui aveva descritto i suoi rapporti con le donne, il testamento, l’economia familiare, a un certo punto lo scrittore iniziò a rifiutare i compensi per i suoi scritti perché iniziò a credere in una vita povera, e per i caratteri certamente difficili. Un altro motivo di disaccordo fu la pubblicazione di “La sonata a Kreutzer”, dissacrazione del matrimonio, a cui lei rispose con “Amore colpevole” in cui è forte la difesa dell’istituzione.
Ma l’amore, dalle lettere, era forte tra i due. Tolstoj pare che gliene scrisse circa 900 e in ognuna esprimeva il suo bisogno di avere la donna al suo fianco, musa ispiratrice dei suoi lavori e compagna di vita.

“Vi è un solo modo per essere felici: vivere per gli altri.”

Inferno in Messico/Terra bruciata

“Alcuni dicevano: ci hanno fregato…
siamo spacciati… altri volevano parlare
ma non dicevano niente… sembrava che
pregassero o masticassero le parole.”

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L’elezione di Trump ha gettato tutti nello sconforto e nella paura del futuro americano e mondiale. Una delle decisioni per me più discutibili del nuovo presidente è quella di costruire un enorme muro al confine con il Messico, per fermare l’immigrazione dall’America Latina.

Emiliano Monge, nel suo romanzo “Terra bruciata” pubblicato da La nuova frontiera con la traduzione di Natalia Cancellieri, racconta “dell’ultimo olocausto della specie”: interi popoli che fuggono dal loro paese sperando di raggiungere l’altra parte della frontiera, affrontando tutte le insicurezze e le privazioni di un viaggio e decidendo di fidarsi di uomini senza scrupoli. Monge aggiunge un tassello importante alla letteratura sull’immigrazione, perché di romanzo si tratta pur essendo sostenuto da ricerche e testimonianze e nonostante una certa freddezza da me avvertita nel raccontare, mostrando un lato ancora più doloroso e ancora meno umano: il traffico di persone.

“Succede anche di giorno, ma stavolta è notte. In mezzo alla radura che la gente dei villaggi più vicini chiama Occhio d’Erba, uno spiazzo circondato da alberi maestosi, liane primordiali e radici che affiorano come arterie, si sente un fischio improvviso, risuona il crepitìo di un motore che si accende e quattro enormi riflettori squarciano il buio.
Spaventati, quelli che arrivano da molto lontano si fermano, si stringono gli uni agli altri e cercano di guardarsi: i potenti riflettori, però, abbagliano i loro occhi. Allora, mentre le donne si avvicinano ai bambini e i bambini agli uomini, quelli che camminano ormai da diversi giorni intonano il cantico dei loro timori.”

Bambini, uomini, donne e anziani che hanno come ultima speranza quella di raggiungere gli Stati Uniti per una vita migliore o ricongiungersi ai proprio cari, sopportano e si supportano ma ben presto dovranno fare i conti con una realtà ancora più cruda, e forse neanche mai paventata: il tradimento di coloro che gli avevano promesso di guidarli dall’altra parte e la conseguente vendita ai trafficanti. L’autore sin dall’inizio priva i migranti della propria identità: “Colui che ha ancora un’anima” o “colui che ha ancora un nome” diventa “senzanome” e “senzaDio”. La speranza non esiste e questo ci viene mostrato con forza sin dalle prime righe perché si possa affrontare la lettura con la consapevolezza che nulla di buono arriverà, che l’indifferenza è sovrana e nessuno farà qualcosa per salvare la vita di persone sì, ma straniere.

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Son pochi i personaggi che nel romanzo avranno una chiara identificazione, con nomi fortemente simbolici che richiamano al culto della morte come Epitaffio, Stele, Ossaria, Funerale e padre Loculo, nomi che gridano con forza il dolore e la morte che portano quasi come seconda pelle e che infliggono agli altri. Solo uno dei senzanome avrà un ruolo importante, un ex pugile soprannominato Mausoleo, che verrà scelto per eseguire gli ordini dei trafficanti e mostrerà una volontà di sopravvivenza tale da riuscire perfino a compiere azioni disumane nei confronti di quelli che fino a poco prima erano suoi compagni di sventura. Ma sarà proprio così?
Ti ci abitui presto al tanfo e alla visione della morte diranno a un certo punto due fratelli che da sfasciacarrozze son diventati anche sfasciacadaveri, specialmente se cancellerai dalla mente l’idea che quel corpo prima avesse una vita, una identità ma soprattutto un’importanza, che fosse degno di essere considerato una persona e non un oggetto da cui ricavare denaro e favori. Degradare, disumanizzare l’essere umano. Rimarranno solo flebili versi prima di cedere totalmente e lasciarsi andare, sopraffatti e senza alcuna forza per resistere. La loro voce si sentirà lontana, sotto forma di testimonianze raccolte dall’autore e inserite nel libro quasi come litanie.

In mezzo a tanto dolore, brutalità, interessi economici o di potere a scapito di persone, l’amore è parte fondamentale della narrazione di Monge. È un amore inizialmente segreto quello tra Epitaffio e Stele, due persone nate dal nulla e costrette a una vita da loro non scelta, che vogliono finalmente lasciare tutto e stare insieme. Questo amore così forte sarà centrale nelle 72 ore raccontate dal romanzo, periodo che li vedrà divisi ma sempre con il pensiero rivolto all’altro: dubbi, urgenza di sentirsi e chiarirsi, preoccupazione, mancanza, urgenza invaderanno i pensieri dei due amanti, anche durante i momenti più critici dell’operazione e non verranno mai risolti per la difficoltà di raggiungersi telefonicamente perché tra le montagne la linea è troppo debole. E il loro amore verrà consumato dalla mente e dal corpo, li renderà instabili e sull’orlo della pazzia. È un amore volutamente esasperato e assurdo, perché così grande pur avendo come protagonisti un uomo e una donna che del dolore degli altri ne fanno un lavoro, troppo interessati a se stessi e al proprio volere per rendersi conto di essere bestie.

“Il giorno in cui si erano giurati amore eterno, mentre Stele, coricata sul corpo di Epitaffio, congiungeva con un pennarello i punti che lei stessa aveva inciso, utilizzando il punzone di padre Loculo, sulla sua pelle: come in una fiaba per bambini, Stele aveva visto apparire, sotto al suo tratto lento e incerto, la rosa dei venti che aveva fatto di lui una mappa per lei, e forse anche di più: la cartografia della sua esistenza.”

Il coraggio di sparire/A proposito di Majorana

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«Sparire. Non era la prima volta che mi sentivo prendere da un impulso del genere. Sparire per non dover più affrontare gli ordini del capo, le umiliazioni, dei colleghi e gli assurdi progetti matrimoniali imbastiti da Ana, la mia fidanzata. Sparire come segno di vittoria sugli impegni e i problemi, di liberazione, del dissolversi di tutti i vincoli e le preoccupazioni a cui ci condanna un’esistenza materiale e corporea.»

Ci vuol poco a Ernesto Aguiar, redattore di necrologi, accettare un’indagine che lo porterà a Napoli sulle tracce di Ettore Majorana: basta non avere alternative. Ma se all’inizio l’incarico gli pesa, consapevole di essere sempre una figura di poco conto al giornale e per le difficoltà di dover comunicare un viaggio a un mese dal matrimonio, oltre al fatto di trovare assurdo compiere una ricerca su di un uomo scomparso 80 anni prima, una semplice parola cambia le carte in tavola.

Sparire.

Non sarebbe tutto più semplice? Svanire in un attimo, senza fornire spiegazioni di alcun tipo o affrontare situazioni non desiderate… Liberarsi di tutto. È bastato questo desiderio ad Aguiar per decidere di raggiungere l’Italia a bordo di una barca a vela di un vecchio amico di scuola. Ma i viaggi, la lontananza dall’involucro sicuro che ci si era costruiti, si sa, ti cambiano: l’idea di lasciar perdere il lavoro e proseguire sulla Victoria in compagnia di Ross il Biondo e la sua volontà di redenzione, forse in Turchia o senza toccar terra se non per brevi periodi. Li immagino così, con Ross al timone e il sorriso rivolta a prua ed Ernesto immerso nella lettura di manuali di fisica e testi che hanno tentato di dare una spiegazione al mistero della scomparsa del fisico. Li sento ridere e discutere sulle leggi della fisica o sulla possibile soluzione del caso, su Dio e quale sia la scelta giusta da compiere. Ma arriva il momento in cui una decisione deve essere presa, e Aguiar a Napoli ci arriva,  ma a nuoto. Si sveglia vicino al porto, solo, di Ross non vi è traccia e la barca sta per andare a sbattere contro gli scogli. Raggiunge, così, la città ma avrà una brutta sorpresa: diventerà il primo indiziato della morte di Ross il Biondo, fino a quando non sarà rinvenuto il cadavere.

«Majorana non ci ha pensato su, Majorana l’ha fatto.»

È qui la differenza tra chi sceglie e chi lascia che le cose vadano come devono: coraggio? Non lo so, quel che è certo è che abbandonare tutto è da pochi, e forse si deve arrivare a un punto di non ritorno, all’oblio perché possa rivelarsi la scelta migliore da fare.

Aguiar a Napoli incomincerà la sua indagine grazie all’aiuto del commissario Salvatore Esposito, un poliziotto ben voluto ma preso in giro perché non promosso nonostante i suoi anni di servizio: è uno di quei poliziotti che non possono fare carriera perché cercano la verità a tutti i costi, non sono semplici funzionari di polizia che cercano di chiudere il caso in fretta prendendo per vere le statistiche dei casi e lasciandosi sopraffare dalla mole di lavoro. Conoscerà anche Valeria a cui, dalla meravigliosa vista che si gode da Castel Sant’Elmo, dichiarerà silenziosamente i suoi sentimenti.

Javier Argüello ha la capacità di mescolare diversi generi per porre l’accento sulla vita dell’uomo e su quanto le scelte di ognuno di noi siano ben lontane dall’essere totalmente libere. Chi di noi non vorrebbe poter riscrivere almeno parte della proprio vita o conoscere e, così, modificare il futuro?

Che sia Napoli, o l’amore, o ancora la stessa figura di Majorana, il protagonista non può far a meno di porsi domande, di essere invaso da dubbi e dal desiderio di essere diverso, di fare scelte consapevoli, di “andare fuori gioco” per poter capire cosa davvero vuole da se stesso. Sarà proprio questa sua riflessione personale a portarlo alla possibile risoluzione del caso del grande fisico. Nessun suicidio dunque, nonostante tutto porti a pensare alla scelta più ovvia perché si trattava di una figura chiusa, solitaria, un genio, che, grazie un esperimento, aveva reso possibile la fissione nucleare. Per Aguiar la decisione di sparire era dovuta alla sua volontà forte di vivere secondo le sue regole e i suoi istinti, e lo aveva fatto.

«Se i ragazzi di via Panisperna andavano verso la fisica, Majorana ci viveva dentro, come se attraverso le equazioni non cercasse di risolvere un segreto estrinseco che spiegava i misteri dell’universo, bensì un segreto interiore che lo riguardava personalmente.»

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In un continuo raccontare i cambiamenti avvenuti in se stesso, tra la calma del mare e l’attracco su un’isola e l’esperienza a Napoli, Argüello ci parla di tutti di noi, dei nostri desideri e dei rimpianti. Ci permette di riflettere sulla vita, sulla inconsistenza della realtà attraverso la fisica, e su quanto seguire i proprio istinti, alle volte, sia un passo verso qualcosa di diverso, anche migliore. E forse, tutto questo pensare e interrogarsi, ha la sua origine nella città meravigliosa e contraddittoria di Napoli in cui basta muoversi di pochi passi per trovarsi davanti a uno spettacolo del genere, o sbucare tra la gente che passeggia per le vie del centro o ancora scoprire una piccola perla di arte. Ma basta anche poco per essere catapultati in mezzo allo strombazzare di clacson o alle file alla posta o, ancora, in spiacevoli episodi di ingiustizie. Napoli è così:

«Mi sembrava un brulicare di vita e di storia dove la realtà era più reale che in qualsiasi posto avessi mai visto, come se, paragonandole a Napoli, tutte le altre città in cui ero stato peccassero di leggerezza. […]
Mi sembrava che in quelle strade si potessero ravvisare tutti gli aspetti della civiltà occidentale e moderna, il commercio e la guerra, l’onore e il tradimento, l’alta erudizione e l’stinto di sopravvivenza più animale. E per me personalmente rappresentava una sorta di laboratorio dove ogni mia convinzione veniva messa alla prova, un’esperienza da cui trarre una lezione,come se in un certo senso tutto facesse parte di un piano ordito da qualcuno per darmi la possibilità di osservare la mia vita da una prospettiva diversa, una prospettiva che offriva ai miei occhi avvenimenti e individui nella loro vera dimensione affinché io giungessi, con un pizzico di fortuna, a vedere me stesso.»


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Javier Argüello
A proposito di Majorana
Voland edizioni
Tradotto da Tiziana Camerani e Francesco Ferrucci
Pagine 336
€ 16,00
ISBN 978-88-6243-203-0

Ritrovare se stessi/A caccia nei sogni

Come fratelli cresciuti insieme, affrontarono la questione serissima dei genitori che si comportano in modo bizzarro e dei figli che cercano di reagire come meglio possono.

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Se in La fine dei vandalismi Tom Drury ha poggiato lo sguardo su una umanità tanto variegata, A caccia nei sogni ci permette di conoscere meglio le vite di una famiglia poco convenzionale da una parte, assolutamente tipica dall’altra.

Lo sguardo dell’autore si restringe su Tiny Darling, l’ex marito di Louise nonché uomo poco raccomandabile, che si fa chiamare Charles. Ha abbandonato il suo nomignolo per riacquistare la sua identità, il nome da uomo. È sposato con Joan adesso, e con lei ha un figlio, Micah. In famiglia, oltre al fratello Jerry che si innamorerà di una ragazzina, farà la sua apparizione Lyris, figlia di Joan, da lei abbandonata quando era piccolina.

A volte ho l’impressione che quello che dovrei diventare sia scritto sulla parete di fondo dell’universo e che si stia allontanando da me alla velocità della luce.

Drury ci racconta di vite semplici, insignificanti se guardate nell’insieme ma importanti perché sono vicine a ognuno di noi. Ci parla di insoddisfazioni, di dolori e di scelte.

Charles, pur rimanendo un uomo capace di rubare e di farlo con piacere, mostra il suo lato tenero e dolce con la figliastra Lyris, dimostrandole un affetto da padre: “Il meglio che possiamo fare è ricordarci l’uno dell’altro e, per amore del cielo, fare una telefonata quando vediamo che è tardi”. Insieme a lui seguiremo il suo animo ferito per la lontananza di una moglie che tanto gli aveva dato e per essersi reso conto tardi di aver lasciato andare una persona importante, senza aver fatto nulla per dimostrarle amore.

Joan riprende con sé la figlia abbandonata incapace di darle una spiegazione. È una donna confusa, disillusa, angosciata per un mondo in cui “un ragazzo spara al suo migliore amico” e bisognosa di ritrovare la sua luce nella notte della contea. Neanche il desiderio riuscirà a riportarle serenità; come Louise, deciderà di allontanarsi dalla sua famiglia abbandonando i figli, convinta che “la sua famiglia l’avrebbe aspettata. Joan agiva sulla base della frequente illusione secondo cui, in sua assenza, la vita delle persone a lei vicine avrebbe assunto un andamento circolare”.

Micah, un bambino che ha paura del buio della sua casa ma non quello della contea, silenziosa e solitaria ma illuminata dalla luna e dai lampioni. Non ha paura di girare da solo, ma sente su di sé il peso di una situazione che lui non comprende, e la mancanza della madre in casa fa vacillare le sue certezze.

E infine Lyris, la giovane donna che è stata affidata a più famiglie, girando come una trottola, per poi ritrovarsi dalla madre biologica che l’aveva rifiutata e da cui ben poco si sente amata. Ma è meglio di niente, poter fermarsi finalmente in un posto, ancora meglio se può essere chiamato casa.

Forse qualche residuo dei pensieri di Joan era rimasto impigliato tra i suoi vecchi abiti, e la mente di Lyris sarebbe riuscita ad assorbirlo. A quel punto, magari, avrebbe potuto capire.

Tom Drury non perde la sua prerogativa di utilizzare un linguaggio quanto meno emozionale possibile, lasciando poche frasi a significare il tutto, sentimenti, emozioni e stati d’animo. Ci parla di amori finiti o di momenti di stasi, di tristezza del cuore e sentimenti di impotenza. Di dubbi, di errori, di egoismo ma soprattutto di mancanza di comunicazione. Non lascia sgorgare parole che possano raggiungere un climax, generare pietismo o lasciare il lettore alla sua personale visione. È un dolore pacato, intimo, che turba il cuore ma che non si lascia scoprire da un osservatore esterno, e che trova risposta, forse solo nei sogni. A caccia nei sogni.


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Tom Drury
A caccia nei sogni
NN Editore
Traduttore: Gianni Pannofino
Pagine 240
18,00 €
ISBN: 978-88-99253-69-1
In libreria da: 02-11-2017