(RI)EDUCHIAMOCI AI SENTIMENTI

Avvertenza: se fare i conti con la realtà vi provoca agitazione, non leggete questo articolo. E non leggete Nuovissimo Testamento di Giulio Cavalli.

Un giorno Fausto Albini disegna un cerchio nella sabbia, viene assalito da una sensazione, si sente male e viene ricoverato nel reparto Disturbi Affettivi nello Stato di DF.

Non è forse libertà essere scevri da ogni condizionamento e non avere pensieri laterali che irrompono durante la giornata?

Inutile prenderci in giro, la risposta è sì. A DF il governo non viene eletto ma imposto, e la carica di presidente si tramanda di generazione in generazione. Per rendere possibile la gestione di una nazione fatta di uomini, e quindi delle loro complessità ingestibili, si è trovato un modo per rendere piane le persone: cancellare il sentire. Tutto è regolamentato e deciso dal governo, dai colori di abiti, edifici, oggetti sono sempre più neutri perché possano passare inosservati fino al mestiere di ognuno e alla collocazione dei cittadini in classi con la possibilità di essere promossi o regredire in base al comportamento e alla redditività; e “se c’è qualcuno che dice che qui a DF costringiamo le persone a intraprendere il mestiere che decidiamo noi come autorità di governo significa che non ha capito come va il mondo, non ha capito che l’economia è la summa della politica perché significa incastrare i numeri, le nascite, i morti, gli uomini, le donne e i talenti in un quadro che non si può permettere di cedere in nessuno dei suoi lati”. Sono bandite le arti che da sempre creano rivoluzione, il pensiero libero e il libero arbitrio. Il gusto non esiste, gli alimenti cambiano ogni settimana secondo delle tabelle che indicano per ognuno il giusto fabbisogno giornaliero per sopravvivere. Non esiste il senso della famiglia, le coppie vengono formate in base a classe sociale e caratteristiche per un periodo di tempo, soltanto per riprodursi. I bambini nati vengono allevati dal governo. Gli anziani nascosti in strutture apposite sino alla fine dei loro giorni perché è di cattivo esempio vederli oziare. Il Paese deve solo produrre. Non esistono emozioni, non esistono domande. Non esistono bisogni.

Nel governo di DF avevano infatti studiato a lungo il fatto che la mancanza di empatia fosse la garanzia più solida e importante per il mantenimento del potere e del governo: se l’uomo non si riconosce tra simili non riesce a dare un nome ai propri bisogni. Un uomo che non riconosce i propri bisogni non possiede il vocabolario della democrazia.

I cittadini diventano un gregge mansueto che non ha contezza di vivere una situazione di dittatura. Il governo riesce a far presa su di loro perché si propone come un liberatore dal dubbio e dalla sofferenza derivanti dalle scelte che dobbiamo compiere ogni giorno, anche le più semplici come il pranzo o la cena, e dalla trattativa continua nelle relazioni. Il governo riesce a imporsi perché si professa vicino al cittadino, un risolutore e un facilitatore della loro vita e, di conseguenza, qualcuno che lavora per la felicità e la riuscita di ognuno. Ma mentre in DF riesce a farlo con un sotterfugio, un vaccino che viene iniettato di nascosto ai bambini e che addormenta il sentire e l’empatia, nella nostra società l’arma utilizzata è quella della propaganda attraverso la televisione, della paura, dell’omologazione, dei continui stimoli immediati e passivi che portano a considerare l’arte come un vezzo borghese noioso e inutile. La letteratura non ha attrattiva, il tempo è sempre più veloce e bisogna inseguirlo.
Anche la nostra società punta a produrre: non decidono il nostro lavoro ma ci costringono fare delle scelte che seguano il mercato. Io me li ricordo gli articoli in cui si indicavano le professioni del futuro, le professionalità più ricercate e quelle umanistiche hanno sempre il numero in negativo.
Possiamo aggiungere a tutto questo l’età pensionabile sempre più alta, la gavetta dei giovani sempre più lunga in attesa di qualcosa che non arriva e che neanche vogliamo ma ci troviamo a desiderare, l’odio di classe e le pubblicità sull’orologio biologico delle donne. Per fare solo qualche esempio banale.
A DF anche il linguaggio è condizionato e la socialità è condizionata. Ridotta ai minimi termini, solo qualche convenevole e battute di spirito con conoscenti, colleghi e moglie/marito assegnato. A DF le televisioni sono tanto più grandi quanto più è alta la classe di appartenenza. Indicativo di come questo mezzo abbia inciso su di noi e sul nostro modo di parlare e di pensare, così come sul rapportarci agli altri: molto spesso, troppo spesso, gli scambi tra persone riguardano proprio programmi televisivi come soap operatalk show e reality che entrano completamente nella nostra realtà. Creano una comunità. Superficiale. Tutto è viziato, qui e a DF, votato a rassicurare.
Ma in tutti gli Stati qualcuno sfugge alle regole. Nel romanzo le Brigate Sentimentali agiscono in segreto e spacciano di tutto: cibo, vestiti, musica e libri. Imporre delle novità che stridono con l’abitudine non sempre sortisce gli effetti sperati. A DF accade proprio questo perché “per costruire emozioni bisogna averne il vocabolario mentre i cittadini di DF sono analfabeti. Volete raccontare una bella storia a gente che non capisce la vostra lingua”.
Anche se oggi l’arte non è scomparsa, viene comunque considerata come non necessaria, da istituzioni e cittadini. Bisogna educare le persone, educarle al bello.

È facile, disse Fausto Albini, educare la gente al brutto, basta lasciarla cadere e poi farla strisciare e rassicurarla che è normale, educare alla bellezza significa aprire il cuore e farci entrare tutto dentro, come la bocca di un balena in fondo all’oceano, entra il bello certo e ci entrano certi pezzi di vetro ed entra l’aria ispida e entra tutto e non ci possono essere filtri nelle branchie di un popolo che ha disimparato a respirare.

Permettetemi di dire che nelle arti non tutto rientra nel bello e rimanendo nell’ambito letterario, banalmente, ci sono i libri belli e i libri brutti. Educare al bello significa certo educare a riconoscerlo, a goderne, a stupirsi come riescono solo i bambini e come succede a Fausto Albini la prima volta che legge un libro in ospedale, di nascosto, scoprendo altri mondi altre idee, un altro possibile. Che poi è questa la forza della letteratura no?
A DF però chi mostra uno scostamento dalla rotondità affettiva, senza spigoli da smussare per creare spiragli dall’intorpidimento, viene descritto come malato, o ancora diverso. Le Brigate Sentimentali, una volta uscite allo scoperto, fanno notizia e sui giornali, anzi il giornale, si spreca inchiostro. Le loro foto vengono modificate per sembrare più scure, e loro più sinistri. Diventano altro. Questo altro è pericoloso, un terrorista, il colpevole su cui riversare tutta la rabbia. Perché a un certo punto il governo, per combattere le Brigate Sentimentali, decide di riportare la paura nei cittadini. Una paura illogica che viene instillata dall’alto e che porta al sospetto e istiga alla vendetta. Una paura che viene utilizzata per accrescere il potere del governo, salvatore dei cittadini. Una paura quindi del diverso e di qualcuno che vuole espropriare loro beni e benefici.
Lo scostamento va risolto, curato nel senso più invasivo. Anche nascosto.
A me ricorda proprio la paura che fanno crescere in noi per chiunque non sia italiano o non sia bianco. Andando ad allargare la visuale, penso a come si nascondano le carceri, fuori dalla vista non esistono, non sono parte della città. Ma qui il discorso è ampio.
La scrittura di Giulio Cavalli è perfetta per un racconto così duro e lucido di una società che potrebbe diventare la nostra società se non ci diamo una svegliata. Estremizza situazioni esistenti con parole precise e mai strabordanti, enfatizza la ripetitività, l’aridità, la superficialità e l’inutilità di una vita volta alla produzione descrivendo minuziosamente le abitazioni tutte uguali o i colori bianchi e grigi segnalati da numeri per definire sfumature inesistenti. Sembra una scrittura pacata e piatta come la vita a DF e ma si avverte un movimento sotterraneo.
È una linfa che scorre inarrestabile quella dell’individualità, della libertà, della curiosità e dell’amore, in continuo mutamento e ricambio.
Però Giulio Cavalli ci frega. Ci parla di rivoluzioni ma anche di una società senza violenza e a cui tutti possono contribuire e in cui vivere con dignità. Siamo sicuri che, se ci fosse un referendum, voteremmo per l’arte, la violenza, la trattativa, la sofferenza e non per una calma piatta?
Chissà che il Nuovissimo Testamento non indichi una nuova venuta.



Giulio Cavalli
Nuovissimo Testamento
Fandango Libri, Roma, 2021

Confini fisici e mentali nell’opera di Esmé Weijun Wang

“Una prigione diventa casa se possiedi la chiave”
 George Sterling

Non volevo farla finita vicino a casa, dove avrebbe potuto trovarmi mia moglie, oppure, ed è ancora più terribile pensarci, i miei figli. […]. Non ho fatto altro che causare problemi a tutti e tre, e la cosa peggiore è che mi amavano lo stesso; e quindi non so proprio come questo possa essere altro che un tradimento e un’ingiustizia.

Siamo di fronte a una certezza, quella che caratterizza tutti noi: la morte. Il confine del paradiso di Esmé Weijung Wang comincia dagli ultimi attimi di vita di David, dal suo biglietto d’addio, a dimostrazione di come quell’evento sia un punto fondamentale della storia, di quanto lui sia uno spartiacque tra due vite.
Primo romanzo della scrittrice statunitense nata da genitori taiwanesi, consta di quattro parti e segue la cronologia degli avvenimenti ma alterna i punti di vista: tranne per la prima in cui a raccontare è David, nelle altre i capitoli vengono alternati tra i diversi personaggi principali di quel lasso di tempo e questo permette di indagare a fondo pensieri e azioni.
Tutto ha inizio con i Novak, una famiglia di ebrei polacchi emigrati in America in cerca di fortuna. La fortuna la trovano, il sogno americano si avvera: fondano la Novak Piano Company che prima della guerra conosce una grande fortuna, pari ai celebri pianoforti Steinway. Con la guerra e la conseguente instabilità la musica cambia per gli affari, ma la loro apparente tranquillità non muta. Presto David inizia a dare sfogo a quelle che si rivelano nevrosi: attribuiva ai suoi pupazzi un’anima e quando uno di questi subiva deterioramento, lui arrivava ad avere attacchi di panico.

Racconta che il suo primo incontro con il suicidio risale alla lettura di L’uomo che amava i lupi di William P. Harding, gesto che “non riusciva proprio a capire”; fatto sta che la lettura avrà effetti sulla sua formazione. Sopraggiungeranno nel frattempo altre nevrosi come la dismorfofobia e quella che l’autrice ha definito, inventandola, vitafobia. Le voci sul suo conto iniziano a circolare, il peso di questa situazione e del nome, della reputazione della famiglia diventano un fardello troppo grande per due spalle gracili: essendo lui l’erede, verrà presto catapultato nel mondo dei pianoforti per imparare il mestiere e si ritroverà ancora molto giovane a capo dell’azienda di famiglia, alla morte del padre. Una parentesi felice di questa adolescenza travagliata è l’incontro con Marianne, figlia di alcuni vicini: entrambi innamorati l’uno dell’altro, nonostante Marianne si riveli molto devota ed esprima il desiderio di entrare in convento, saranno costretti a separarsi quando David deciderà di vendere l’azienda al braccio destro del padre: che vita può offrire a una giovane donna un uomo che non è capace di reggere le redini di un’azienda?
L’ultima cosa a cui volevo pensare era quanto fosse difficile essere una persona ed essere vivi.

Compiuti i diciotto anni David vola a Taiwan, e qui comincia un’altra storia. L’incontro con una cultura diversa dalla nostra avviene con la comparsa di Jia-Hui, figlia di una mama-san (capo di un bordello) e di un boss della criminalità organizzata, che si occupa di trovare ragazze da far lavorare nel locale della madre. Ha potere Jia-Hui nel suo mondo, ha il potere di far cambiare vita a giovani donne che spesso, molto spesso, scappavano da situazioni peggiori. I due si innamorano e tornano in America. Lei diventa Daisy, il suo agnellino orientale. Ma è amore? Proprio David scrive di essere stato ammaliato dall’esoticità di colei che diventa presto sua moglie; quell’attrazione per l’esotico, il lontano. La porta con sé come si fa con un souvenir. L’impatto con la Grande Mela viene reso perfettamente attraverso il rifiuto del cibo tipico americano di hamburger e patatine per esempio, che l’autrice non riesce a mandar giù tanto da cibarsi per alcuni giorni di solo latte anche per nutrire il bambino che porta in grembo; ancora, notiamo un grande cambiamento di una ragazza nata e vissuta con due tagliagole trasformarsi in una donna bisognosa quasi d’amore, di attenzioni. C’è però un altro tema molto importante che caratterizza questa parte e il rapporto tra i due ed è la lingua: nel capitolo in cui Daisy incontra la madre di David ci sono alcune linee al posto delle parole, un po’ come si usa fare nel gioco dell’impiccato; qui la differenza sta nella linea continua e non nei trattini. Non è un gioco a indovinare. Si svela in tutta la sua forza una mancanza difficile da colmare, quella dell’impossibilità di dialogo e quindi di comprensione che non è solo comprensione tra due persone, ma della realtà in cui vivi. I due non comunicano, fondano il loro rapporto su sensazioni, su vuoti da riempire, sulla fisicità. Come comprendere i bisogni dell’altro, come incontrarsi negli intenti, come scontrarsi nelle idee! Come può un luogo indecifrabile diventare casa! I pensieri si attorcigliano su se stessi e rimangono tali.
L’amore terreno non è un baluardo contro la solitudine.

Le nevrosi di David non sono mai sparite ma Daisy, di fronte alle ferite auto inferte e alla confusione, non abbandona suo marito. Dopo aver vissuto in albergo si trasferiscono a Polk Valley, California. Il desiderio di solitudine di David, lontano da bisbigli, sguardi di compassione e da altri addii, non è mai scomparso. Il trasferimento in una casa nel bosco sarà una scelta naturale, ma anche la casa e la famiglia non riescono a placarlo, salvo alcuni rari momenti. Nasce William e dopo poco tempo arriva Gillian, figlia di David ma non di Daisy, così simile al padre. La vita prosegue nell’isolamento del loro covo, nella paura che il peggio possa accadere e così chiede al marito di insegnarle a guidare nel caso dovesse servire.
Mi distruggeva dover stare sempre all’erta, non dire mai una parola che potesse essere interpretata come scortese, fare tutto quello che voleva lui, che mi andasse o meno, incoraggiarlo, proteggere i nostri bambini dalla sua follia eppure non riuscire nei miei patetici tentativi, sentirmi inutile, vivere con lui, amarlo, essere una moglie coscienziosa e sapere che non faceva alcuna differenza.
Fino a che. Ritorniamo così al principio ma questa volta non è David a raccontarsi. Daisy si ritrova da sola, a ripensare alle volte in cui avrebbe potuto andare via, tornare a Taiwan e lasciarsi la malattia alle spalle, la solitudine che l’amore non può cancellare, una vita che ha avuto solo pochi sprazzi di felicità, ma a senso unico. Lasciare quella famiglia allargata che non è più sua. Eppure era stata avvisata: David è pazzo. Ora è lei a dover prendere le redini, a dover andare in paese per comprare il cibo. Ricomincia a parlare la sua lingua con i bambini, cosa che David non voleva perché sono bambini americani e lui il mandarino non lo capisce. Qualcosa scatta in lei: Gillian deve diventare la tongyangxi di William. Questa pratica, tipica della Cina, è stata dichiarata fuori legge nel 1949 ma ha resistito a Taiwan più a lungo e può esser vista come un matrimonio combinato in cui una famiglia con un figlio maschio preadolescente adotta una figlia femmina di pari età o un po’ più piccola, allo scopo di farli crescere insieme, con la stessa disciplina e gli stessi ideali. Una volta pronti, i due si uniscono sessualmente e convolano a nozze per garantire la prosecuzione della stirpe. La giovane donna è destinata inoltre alla cura dei genitori adottivi. È il ruolo che di solito spetta alle figlie femmine, con l’aggravante di essere costretta a una vita non voluta, ma spesso l’unica possibile. Trasuda egoismo dal romanzo, possesso per paura di rimanere soli. Rinchiusi in un paradiso che diventa inferno, costruito su misura, da cui è impossibile fuggire per l’incapacità di vivere in un mondo che non si conosce, con regole e spazi e persone e. Il confine della loro casa non è solo fisico ma è diventato mentale, l’unico esistente e possibile. Ma non per Gillian, a cui vengono imposte regole molto dure. William accetta invece questo destino, desideroso di amarla. Che la follia sia ereditaria? Io credo che, come dice Marianne, ogni azione ha delle ripercussioni e quelle di David, volute o meno, hanno avuto delle conseguenze sulle scelte della famiglia, anche indirettamente vista la sua scomparsa quando i figli erano piccoli. L’isolamento, la costrizione entro certi confini mentali e fisici, le regole, la privazione di libertà che in Gillian si trasforma in sofferenza perché certa che ci siano altre realtà, il sentirsi lei destinata a un compito scelto da altri ne hanno minato la psiche. Si vuol parlare di follia? Nel confine di una casa che è diventata una prigione, la chiave è soltanto una.


Esmé Weijun Wang
Il confine del paradiso
traduzione Thais Siciliano
pp. 414
Edizioni Lindau, Torino, 2018

*Pubblicato su IlPickwick.

Paura dei giudizi? Vi spiego quando sono utili

𝐶𝑖𝑎𝑜 𝑉𝑖𝑣𝑖𝑎𝑛𝑎,

𝑖𝑛𝑖𝑧𝑖𝑜 𝑐𝑜𝑛 𝑖𝑙 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑜 𝑐𝑜𝑚𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑎 𝑐𝑎𝑙𝑑𝑜 𝑑𝑜𝑝𝑜 𝑙𝑎 𝑙𝑒𝑡𝑡𝑢𝑟𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑡𝑢𝑎 𝑠𝑐ℎ𝑒𝑑𝑎: 𝐴𝐷𝑂𝑅𝑂! 𝑄𝑢𝑒𝑠𝑡𝑜 𝑒̀ 𝑝𝑟𝑜𝑝𝑟𝑖𝑜 𝑖𝑙 𝑡𝑖𝑝𝑜 𝑑𝑖 𝑓𝑒𝑒𝑑𝑏𝑎𝑐𝑘 𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑡𝑎𝑣𝑜 𝑐𝑒𝑟𝑐𝑎𝑛𝑑𝑜. 𝑇𝑖 𝑓𝑎𝑐𝑐𝑖𝑜 𝑖 𝑐𝑜𝑚𝑝𝑙𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑝𝑒𝑟𝑐ℎ𝑒́ ℎ𝑎𝑖 𝑚𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑖𝑛 𝑙𝑢𝑐𝑒 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑖 𝑐𝑟𝑖𝑡𝑖𝑐𝑖 𝑑𝑖𝑣𝑒𝑟𝑠𝑖 𝑠𝑢 𝑐𝑢𝑖 𝑓𝑜𝑐𝑎𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑟𝑚𝑖. 𝐴𝑙𝑐𝑢𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑖 𝑙𝑖 𝑠𝑜𝑠𝑝𝑒𝑡𝑡𝑎𝑣𝑜 𝑚𝑒𝑛𝑡𝑟𝑒 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑖 𝑚𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑟𝑖𝑠𝑢𝑙𝑡𝑎𝑡𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑛𝑢𝑜𝑣𝑖. 𝐸𝑑 𝑒̀ 𝑢𝑛 𝑏𝑒𝑛𝑒.”

Non è facile per un autore accettare le critiche al suo lavoro, anche se provengono da un professionista e sono fatte con cognizione di causa, spiegazioni ed esempi. L’autore del commento autore, invece, è riuscito a comprendere il senso della mia scheda di valutazione e della scheda di macroediting: ha capito che ci sono diversi punti critici che lui, da autore e quindi da affezionato al proprio lavoro, non riusciva a vedere. Digerire le “critiche” e lavorarci su senza farsi abbattere è altra cosa, ma serve solo a migliorare il testo e a migliorare la propria scrittura e anche la lettura, perché riusciamo a “studiare” i libri degli altri sotto una nuova luce.

È importante, quindi, avere una scheda di valutazione che metta in luce punti di forza e punti di debolezza della storia che scrivete, prendendo in esame struttura, personaggi, contenuti e scrittura oltre al target dei lettori e alle case editrici potenzialmente interessate in base alla linea editoriale e alla pubblicabilità.

La scheda di macroediting, che può essere fatta in un momento successivo o in contemporanea, segnala con precisione i punti su cui lavorare in fase di editing: capitoli, struttura, personaggi, tagli o aggiunte, punto di vista, stile. In questo modo avrete chiaro come la persona che ha compilato la scheda intende procedere sul testo. Potete anche scegliere di non affidare il lavoro alla stessa persona: si può inviare alla casa editrice che decide di pubblicarvi senza editing preventivo, o ancora a un’agenzia letteraria o di rappresentanza o a un altro editor.

Non avere paura dei giudizi, quando questi non sono volti a ferirvi ma solo ad aiutarvi, è fondamentale quando si decide di scrivere e pubblicare un’opera. In fondo, il vostro scritto diventerà pubblico e spesso i giudizi dei lettori e dei giornalisti possono essere peggiori.

Per dubbi, domande e preventivi sulla scheda puoi scrivermi a: viviana.calabria91@gmail.com

Diritto d’autore: prevenire furto e plagio si può?

Anche voi tremate all’idea che qualcuno possa rubare la vostra storia?

Una domanda che mi pongono spesso riguarda proprio il rischio di furto o plagio dell’opera letteraria e come prevenirli.
Inizio col dirvi che è molto difficile che un editore o un agente possa rubare la vostra idea, quindi non abbiate timore nell’inviare il vostro testo per una valutazione/pubblicazione (in maniera oculata, ma su questo ci torneremo poi oppure potete chiedermi una consulenza personalizzata).

Non so quantificare il numero di plagi o sottrazioni di opera d’ingegno da parte di amici/sconosciuti/scrittori ma una soluzione per dichiarare la paternità di un’opera inedita, esiste. Anzi, più di una!

Soluzioni

Secondo l’articolo 2576 del Codice Civile il diritto d’autore su un opera consegue immediatamente alla creazione della stessa opera, è quindi istantaneo. C’è un ma.
Nel caso di dispute legali per furto o plagio, l’articolo del Codice Civile risulta del tutto inidoneo a dimostrare la proprietà dell’opera. Ecco dei validi strumenti per dimostrare di essere gli autori del testo, inedito, quindi non ancora pubblicato.

  • Deposito notarile: il notaio attesterà di aver ricevuto il libro da te a quell’ora di quel giorno. I prezzi variano, ma questo di per sé non basta a dimostrare di essere l’autore.
  • SIAE per opere inedite: deposito dell’opera previo pagamento (prezzo basso) e compilazione modulistica. Il deposito dura 5 anni e prova l’esistenza dell’opera alla data del deposito.
  • Posta raccomandata con ricevuta di ritorno: servizio postale economico. Mai aprire la busta!
  • PEC: posta certificata online, economica. Consiglio di firmare digitalmente il documento. La mail va inviata a se stessi, allo stesso indirizzo PEC.
  • Marcatura digitale: ugualmente economica, con una validità lunga, permette di associare data e ora certe e legalmente valide a un documento informatico.

Il mio consiglio è di usarne più di uno contemporaneamente e di informarsi sui limiti di ogni soluzione.

Figure esterne alla casa editrice

Nel primo articolo ho illustrato le figure e i ruoli all’interno di una casa editrice di grandi dimensioni perché, come spiegato, le case editrici medie e piccole accorpano più funzioni in una sola persona e/o si affidano a esterni (freelance e agenzie di servizi). Ci sono altre figure che girano intorno alle case editrici ma non vi lavorano all’interno, andiamo a scoprirle brevemente.

Traduttore

Il traduttore è di norma un freelance che collabora con più case editrici, su commissione. Per proporsi e farsi conoscere accade spesso che presentino a una casa editrice alcuni capitoli di prova su un testo inedito in Italia, tenendo ovviamente conto del catalogo della casa editrice italiana a cui si propongono.

Agente

L’agente è una figura criticata, ma molto interessante e utile. Tra i suoi compiti c’è la rappresentanza editoriale o scouting e la consulenza sui contratti e il diritto d’autore. La rappresentanza ha lo scopo di proporre un manoscritto, valutato preventivamente, a una casa editrice. L’agente fa da intermediario tra editore e autore. Oggi le case editrici lavorano molto con gli agenti perché questa figura esterna è un professionista del settore, conosce il mercato, le linee editoriali delle case editrici e quindi sa cosa proporre ai diversi editori. La casa editrice si fida perché sa di avere a che fare con un esperto e perché sa che il testo che gli viene proposto oltre a essere adatto per la sua linea editoriale, è anche qualitativamente buono perché è stato già letto e valutato dall’agente. La consulenza sui contratti e il diritto d’autore è fondamentale perché ti permette di essere tutelato da un esperto, specialmente se sei al primo contratto.

Distributore

Il distributore principale in Italia è Messaggerie, ne avrete sicuramente sentito parlare. Il distributore, come dice il nome, distribuisce i libri, li spedisce materialmente alle librerie. È un tramite tra casa editrice e libreria (o GDO). Possiamo distinguere una distribuzione diretta e una indiretta. Quella diretta è affidata all’ufficio commerciale della casa editrice che si occupa di tenere i contatti con le librerie, gestire magazzino, rese e acquisti. Quella indiretta vede l’entrata in scena del distributore. Questo può essere, poi, nazionale o locale.

Grossista

Il grossista è una figura che sta tra il distributore e il libraio. Il grossista acquista i libri dal distributore, che li acquista dall’editore che alla fiera mio padre comprò. Scherzi a parte, immaginatelo come un enorme magazzino che contiene copie e copie dei libri in commercio. Dal grossista il libraio attinge quando deve acquistare una copia o ha un’urgenza.

Distributore e grossista incidono sul guadagno dell’editore e del libraio, ma ne parleremo successivamente.

Promotore

Il promotore promuove libri, e fin qui è chiaro. Non ha niente a che fare con l’ufficio stampa e marketing interni o esterni alle case editrici. Il promotore di cui parlo è un agente di vendita che si occupa di presentare le novità degli editori con cui ha una collaborazione, ai librai e lo fa attraverso il famoso copertinario: raccoglitori di schede promozionali (adesso digitali) che servono a dare al libraio un’idea del volume e spingerlo ad acquistarne copie.

Tipografo

Qualcuno il libro lo deve stampare per farlo arrivare ai lettori, giusto? Ecco che arriva il tipografo. Dimenticate l’arte di un tempo, se ne trovano poche di stampe create con le matrici e i caratteri mobili. Oggi è tutto digitalizzato, veloce. Il testo arriva già pronto per la stampa grazie ai programmi di grafica come InDesign.

Libraio

Chi di noi, almeno una volta, non ha sognato di aprire una libreria per vendere i libri che più ama, organizzare presentazioni con i suoi scrittori preferiti e immergersi ogni giorno nelle novità. La figura del libraio non ha bisogno di presentazioni, ma si dibatte molto sul suo ruolo: semplice venditore o figura mitica di saggio esperto e consigliere? Per me ci vuole un giusto equilibrio tra le diverse anime. E poi, saper appassionare è un ottimo strumento di vendita.

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