Speciale GoodBook/Intervista a Leonardo Malaguti

L’editore del mese | Intervista a Leonardo Malaguti, scrittore

 

Per la rubrica “Editore del mese” dedicata a Exòrma Edizioni, ho intervistato il giovane autore Leonardo Malaguti, in libreria con il suo romanzo d’esordio Dopo il diluvio.

Giovanissimo autore, classe ’93, ti dedichi alla scrittura e alla sceneggiatura oltre che alla regia. È indubbio che il romanzo, finalista al Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza, risenta di questa tua formazione nella capacità che hai di dar vita a immagini subito visibili e percepibili al lettore, proprio come in un film. Credi che, al di là del tuo caso, questa possa essere una tendenza della narrativa contemporanea, che vuole avvicinarsi di più al potere che hanno le immagini nella nostra società?

“Credo proprio che si tratti di una caratteristica sempre più comune nella letteratura contemporanea, ma non penso sia semplicemente una “tendenza”: l’immagine non è solo potente, al giorno d’oggi è un elemento primario e imprescindibile del linguaggio, della cultura, della quotidianità. Dunque più che di “tendenza” parlerei di evoluzione del pensiero: la scrittura si fa “visiva” perché chi scrive non ragiona più esclusivamente per concetti astratti, ma anche per input (audio)visivi. Il correlativo oggettivo non è più soltanto una formula poetica di quelle che si studiano a scuola, ma la forma mentis del pensare moderno. Sforzarsi di scrivere “per immagini”, dunque, non è più necessario: basta scrivere.”

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Leonardo Malaguti

Inganno, pazzia, terrore, sesso, delitto, paranoia e rape sono i termini che rappresentano perfettamente quello che è il tuo romanzo d’esordio, Dopo il diluvio, e che utilizzi, infatti, nel booktrailer. Come si legano, quindi, alla storia che hai raccontato?

“Rimandano ognuno a elementi ricorrenti del racconto, ma penso che potrebbero essere racchiusi tutti (eccetto le rape, credo) nel concetto di paranoia: Dopo il diluvio infatti, più che un giallo, un horror, una tragicommedia, una pièce surreale – o qualsiasi altra definizione di genere che si potrebbe trovare – è uno “studio narrativo” su come una comunità possa reagire di fronte a situazioni estreme e di come basti poco a tramutare la paura dell’ignoto del singolo individuo in isteria collettiva, con tutto ciò che ne deriva. Per quanto riguarda le rape… beh, sono bitorzolute e dure, come le teste dei paesani.”

“Qui si scrive male” è una collana di Èxòrma che sta dando grandi soddisfazioni alla casa editrice e ai lettori. Secondo una definizione data dagli stessi editori, lo scopo è quello di “trascurare le scritture sfiancate e addomesticate alla necessità del farsi vedere e sbarrare il passo all’omologazione dei contenuti, alle strettoie dei generi.” Come si inserisce qui il tuo romanzo?

“Citando quasi testualmente frasi che ho sentito a lungo rivolgere al romanzo dai rappresentanti di varie case editrici prima di approdare in Èxòrma: non si inserisce in nessun genere, la trama non si può riassumere in una frase, non è un romanzo “di tendenza”, prende strade inaspettate che spiazzano il lettore (in positivo o negativo, questo non sta a me dirlo). C’è chi l’ha paragonato a un grande teatro di posa allestito in ogni minimo dettaglio, in cui bisogna imparare ad ambientarsi. Molti sul mercato le vedono come debolezze, in Èxòrma sono considerati punti di forza.”

Il tuo romanzo inizia con un diluvio che colpisce un paese dislocato in una valle, e racconta di ciò che accade dopo la catastrofe. Regna l’anarchia, gli uomini danno mostra del lato peggiore di sé, si cerca in tutti i modi un capro espiatorio, in più c’è la figura del Generale Krauss, (per caso si rifà al generale nazista?) un singolo che cerca di creare pian piano un nuovo ordine. Credi che sia necessaria una “pulizia” generale per tentare di recuperare quel che di buono è rimasto nella nostra società? Credi che ci sia una regressione della società e un tentativo di creare un nuovo ordine anche oggi? Insomma, quale è il legame con l’oggi?

“A essere sinceri non avevo idea dell’esistenza di un vero Generale Krauss finché non ho cercato su Google dopo aver letto questa domanda e la coincidenza mi diverte molto. Il caso, come sempre, ha la meglio. Probabilmente il finto Krauss avrebbe avuto simpatie naziste, ma destinate a non durare: è un personaggio troppo scomodo e fuori dagli schemi, sarebbe finito presto nella lista nera del partito. Non credo affatto alla necessità né tantomeno alla bontà di una “pulizia”, ma non so se si possa parlare di regressione. Sicuramente viviamo in tempi caotici, siamo a uno snodo storico e culturale e come sempre al cambiamento si accompagnano ondate reazionarie. Non penso che la società di oggi sia “peggiore” di trenta, sessanta, novant’anni fa (non significa che sia migliore, ovviamente) e non mi piace la nostalgia irrazionale perché si basa spesso e volentieri su proiezioni idealistiche invece che sui fatti: è la paura dell’ignoto a generarla, la paura di doverci adattare a qualcosa che non conosciamo, di perdere quello che abbiamo e di perderci noi stessi. C’è sempre chi si oppone a questi movimenti e cerca di stabilire arbitrariamente l’ordine, e basta guardarci intorno per capire che sta succedendo e dove purtroppo ci sta portando. Un ordine forzato non è ordine. L’ordine, se esiste, è spontaneo, ma ci si fa presto l’abitudine e dura poco. Imparare a gestire il disordine è l’unica maniera per trovare una qualche forma di pace. Il paese del romanzo è un riflesso a-storico e stilizzato di tutto questo.”

Èxòrma ha pubblicato da poco Neghentopia, un testo molto particolare di Matteo Meschiari che credo abbia qualche legame con il tuo in quanto Matteo racconta di un mondo ormai distrutto, di un’apocalisse inevitabile che, secondo l’autore, è già in atto in alcune parti del nostro mondo e non tarderà a colpire anche noi, causata dalla nostra indifferenza per l’ambiente. Secondo Matteo, quindi, non vi è alcuna speranza di salvezza. Secondo te?

“Sicuramente con Matteo condivido la predisposizione al pessimismo, ma credo si tratti di due sfumature diverse: sotto la scorza cinica rimango ingenuamente affascinato dal disastro e riesco a scorgervi se non una speranza, un barlume di bellezza, e mi domando se, dopotutto, non sia giusto che le cose vadano in quella maniera. Mi terrorizza, desidero sinceramente che migliorino, ma la parte di me che riesce a rimanere razionale pensa: forse è orribile solo dal nostro antropocentrico punto di vista. E, in ogni caso, prima o poi, che lo si voglia o no, tutto deve terminare quindi meglio mettersi l’anima in pace (cosa comunque quasi impossibile da fare, giustamente, ma è bene almeno provarci). Neghentopia parla di quello che succede dopo l’Apocalisse, Dopo il diluvio di quello che succede subito prima: nel primo caso l’orrore si è già consumato, si è passati oltre, nel secondo tutto può ancora succedere. Non so se chiamarla speranza, o angosciante incertezza. In ogni caso non è rassicurante.”

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La copertina di Neghentopia di Matteo Meschiari

 

 C’è un passaggio molto bello nel libro: “Nessuno sa mai nulla. Per questo ci vuole qualcuno che racconti le storie, che trasformi il pettegolezzo in cronaca e la cronaca in letteratura, altrimenti la gente non ricorda, non conosce, non crede. I fatti sono sempre noiosi o troppo dolorosi da sostenere, per quello si tace, si ignora, si bisbiglia, sta dunque al poeta entrare in gioco – è una lotta farsi ascoltare.” È il compito della letteratura secondo il tuo modo di vedere?

“Parzialmente: questo passaggio è recitato da un personaggio estremamente colto e brillante, che però non si rende conto che la sua visione è profondamente limitata dal suo ego e dal suo cinismo. C’è della verità, e credo sia un’analisi abbastanza realistica dello stato attuale delle cose, ma trovo anche che il tema sia molto più ampio e sfaccettato, difficilmente riducibile a un aforisma.”

 

L’articolo è stato interamente ripreso da GoodBook, che ringrazio per la possibilità.

C’erano un inglese, un francese e una napoletana/Non conquistammo che sabbia

Il deserto è un oceano della terraferma e l’immagine dell’immensità.

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La possibilità, e la fortuna, di presentare libri di autori di cui eri ignara, spesso esordienti in case editrici piccoline e sconosciute, riserva delle sorprese: incontri interessanti, chiacchierate allegre e piccoli pezzi di scrittura brillante.

“Non conquistammo che sabbia” è il primo romanzo di Domenico Aliperto, giornalista, fotografo e viaggiatore. Attualmente si occupa di tecnologie, più di questo non so spiegare. C’è molto delle sue passioni in questo romanzo, storico e d’avventura, divertente e illuminante. Mi ha raccontato che è nato tutto da un gioco che gli hanno fatto fare a un corso di scrittura: aveva tre parole, budino, cammello e parrucchiera e con queste doveva creare una frase che avesse un senso. Nasce da qui l’incipit del romanzo, indicativo sia dello stile ironico dell’autore sia di uno dei personaggi più buffi della storia ma che subirà un cambiamento nel corso del viaggio.

“Venti giorni di giallo e torrido deserto. Le chiappe come un budino sbatacchiate sul dorso di un serafico cammello e in testa soltanto tre parole: acqua, bidè e parrucchiera.”

Madame De Cecco è una donna della nobiltà napoletana che decide di andare a vivere nella casa di Mondragone per allontanarsi dai genitori e dalle malelingue: è una donna consapevolmente ignorante, a quell’epoca non vi era alcun interesse a dare un’educazione scolastica alle figlie femmine poiché loro compito era quello di accudire poi i figli, dai costumi libertini. Aveva, dalla sua, una grande passione per i viaggi e le avventure che intraprendeva comodamente dal sofà durante le feste alla villa, in cui a essere invitati erano spesso personaggi di una certa levatura dediti all’azione. È proprio durante una di queste sontuose feste che incontrerà Archibald McFenzie e Roger Delacroix, il primo ambasciatore inglese il secondo gesuita francese dalla dubbia fede, e con loro, per la prima volta, il viaggio non sarà solo un sogno.

Inseguiti dai sicari del movimento dei Giovani Turchi, Delacroix e Madame raggiungeranno Napoli per salpare su una barca diretta a Tripoli. Qui la donna, che inizialmente era restia a partir con loro pur essendo in pericolo, inizierà il suo cammino verso il cambiamento:

“Napoli è assurda perché è un labirinto di facce. che cambiano come fossero pareti mobili e ti disorientano. Un attimo prima sembrano del tutto indifferenti. Paiono tramortite dal baccano delle strade, dalle urla dei venditori di pesce, dal cigolare delle carrozze. Non ti darebbero retta nemmeno se stessi morendo. […]
Ma volete sapere qual è il motivo vero per cui io penso che Napoli sia assurda? Perché nonostante tutte queste contraddizioni pazzesche, Napoli è di una bellezza senza fine. O forse è proprio per questo che Napoli è uno dei luoghi più straordinari che la nostra civiltà, in tutta la sua memoria, abbia mai conosciuto.”

Perché Napoli è così e chi ha tanto veduto non ha bisogno che di guardarsi intorno e ascoltare per avere piena consapevolezza di un luogo. Ma Madame ha preferito chiudersi tra le mura della villa e non guardare. Vuole partire ora, vuole poter dire anche lei che Napoli è assurda, o Parigi, o Londra.

Ma dalla bellezza di una descrizione così precisa della città, presto l’autore riporterà l’avventura su toni più ironici e buffi coinvolgendo il terzetto in avventure pericolose ma sempre raccontate con l’intermezzo di botta e risposta e battute, grazie anche al carattere della donna che metterà spesso nei guai i due uomini. Nonostante i suoi difetti, sarà impossibile non innamorarsi della nobildonna: così bella e appariscente, leggera nel modo di vivere, inconsapevole fino alla fine di quanto la realtà non sia come quella delle sue fantasie, ingenua ma capace di buoni sentimenti.

“Essere innamorati è roba da ragazzini. Amare una donna e non poterci stare insieme invece è straziante.”

Domenico Aliperto ha costruito un romanzo in cui tanti elementi si amalgamano tra loro: un po’ Indiana Jones con le sue avventure rischiose e assurde, un po’ romanzo storico con alle spalle uno studio notevole dell’epoca, con l’inserimento di aneddoti e notizie reali ma poco conosciute inserite sapientemente nel testo, un po’ commedia e romanzo ottocentesco. Raccontare la storia è impossibile, ma non vi son dubbi nel dire che si tratta di un esordio convincente e coraggioso, anche per la piccola casa editrice che ha deciso di investire su 700 pagine dense. Un complimento alla copertina e alla decisione di cambiare il titolo che, come dice l’autore, racchiude il senso ultimo della spedizione: non conquistammo che sabbia, ovvero che il piano si rivelò inefficace tanto che la guerra in Libia, purtroppo, non verrà evitata.


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Domenico Aliperto
Non conquistammo che sabbia
Bianca e Volta
Pagine 730
17.00 €
9788896400371