La Roma di mezzo | La città dei vivi

Il primo pensiero davanti alla pagina bianca di questo articolo è stato: devo parlare di Nicola Lagioia e del libro in sé o del caso Varani? Dove finisce l’uno e inizia l’altro?

Per come la si metta, la storia ci porta indietro di qualche anno, precisamente nel 2016. Siamo nella biglietteria del Colosseo quando del sangue gocciola sulla scrivania di una delle addette: si scoprirà che proviene da un topo. L’accidente è vero, le cronache lo riportano, anche se l’incipit sembra preludere a un classico thriller difatti più di una volta mi sono ritrovata a leggere le vicende con un certo distacco, a dirmi “lo sapevo”, quasi una gara a chi indovina l’assassino. Non so se sia un bene o un male, se la colpa sia mia o dipenda dallo scrittore. Tornando all’inizio, Lagioia col suo incipit compie una scelta furba perché permette di catturare l’attenzione. Furberia o meno, è innegabile che l’intento dell’autore sia anche quello di presentarci il contesto, che non è tanto sfondo quanto personaggio vero è proprio: Roma. C’è la Roma di su, il cielo sugli archi di travertino, le colonne vecchie di duemila anni, la basilica di Massenzio, il Colosseo, e la Roma di giù, i topi, l’immondizia, le file, il traffico, i disservizi. E poi ci sono i gabbiani che sono sia su che giù, che fanno ombra sulla città e non sono un buon presagio. La Roma dei vivi e quella dei morti. E poi c’è la Roma di Mezzo, quella di una famosa inchiesta che coinvolgeva privati e istituzioni: «È la teoria del Mondo di Mezzo, cumpa’, ci stanno i vivi sopra e i morti sotto. Noi siamo nel mezzo perché c’è un mondo, un Mondo di Mezzo, in cui tutti si incontrano tra loro. Nel Mondo di Mezzo tutti si incontrano con tutti. Ci trovi delle persone del sovramondo perché magari hanno interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia dei favori che non può fare nessun altro». A me sembra che questa storia sia proprio lì, in mezzo.

Roma è la città in cui può succedere di tutto e questo omicidio così come è poteva accadere solo qui, dice Lagioia. Ha già visto la fine del mondo questa città e nulla può davvero spiazzare chi la vive. In questo «delirio urbano» sembra inevitabile soccombere a un delirio mentale. Se nella prima parte, la più riuscita a mio parere, ci si concentra molto sulla città – a volte con troppa insistenza concentrando una serie lunga di sensazioni, di immagini del degrado che bene ormai conosciamo –, sul rendere il male qualcosa di concreto, di palpabile, e si presenta il caso Varani, dalla seconda parte si scava più in profondità nei fatti.

Ma quali sono, questi fatti? Tra il 4 e il 5 marzo Luca Varani viene ucciso in un appartamento al decimo piano di Via Igino Giordani, quartiere Collatino. Ad ucciderlo sono Manuel Foffo e Marco Prato. Attraverso interviste ai mandanti, alle famiglie, agli amici e a quanti vicini al caso, Lagioia tenta di ricostruire cosa è successo quella notte ma soprattutto i motivi di quel gesto così estremo e feroce. Che ricerchiamo in fondo tutti, per spiegarci i nostri comportamenti. Veniamo a sapere che l’autore deve scrivere un reportage per un giornale; inizialmente titubante, alla fine accetta il lavoro per un motivo personale, comprensibile ma forse debole. Ma chi sono io per giudicarlo.

Da qui in poi il racconto sfocia troppo spesso in un tono filosofeggiante, con una serie di teorie personali sul male, sullo stesso omicidio, sulla colpa. C’è questo motivo di Roma che torna, fuori luogo adesso, perché ci racconta dello stesso autore e della moglie che si allontanano da Roma, da tutte le contraddizioni e il dolore di quella città ma allo stesso tempo vogliono tornarci, come una calamita. È un qualcosa che stufa perché diventa ancora troppo.
Senza dilungarmi sul resto della storia vorrei porre all’attenzione alcuni spunti di riflessione emersi dalla lettura. Il primo, che ritengo importante, è che nonostante si parli di cronaca nera, Lagioia non offre particolari morbosi. O meglio, non racconta particolari della vicenda mettendovi l’accento come spesso fanno i giornalisti. È indubbio che vengano scandagliate le vite di Luca, Marco e Manuel, il loro passato, ma non c’è ombra di giudizio, di insistenza. Ciò che viene fuori dalle indagini lo troviamo su carta. Quello che si viene a sapere: droga, alcool, omosessualità, relazioni. Sono ricostruzioni che fanno scemare di molto quella palpabilità dell’oscuro che aveva tentato inizialmente di creare l’autore, e la freddezza del racconto non fa empatizzare con la vittima. Con i carnefici, neanche a dirlo. Ma c’è un’altra riflessione interessante, che mai esce dai racconti di cronaca: «Tutti temiamo di vestire i panni della vittima […] È sempre: ti prego, fa’ che non succeda a me. E mai: ti prego, fa’ che non sia io a farlo.»

Parlare di mostro e atti mostruosi è un modo per creare distanze enormi tra noi e loro sul piano emotivo. Ci permette di credere che non potremmo mai fare una cosa del genere e quindi questo porta ad avere paura di subire ma non di agire. In realtà, le zone d’ombra sono in ognuno di noi. Questo ci porta anche ad un’altra riflessione, ovvero i motivi. Da appassionata di psichiatria, di mente, di criminologia sono affascinata proprio dal passato e da cosa succede alle persone per portarle a compiere crimini. Ma serve davvero? O meglio, si può davvero riuscire a individuare quel qualcosa che scatta e si trasforma in orrore? Quelli ricercati in questo libro sono alcuni motivi che effettivamente hanno portato persone incensurate (perché definirle normali mi sembra sbagliato, così come i giornalisti che definiscono onesti lavoratori gli uomini che si macchiano di femminicidio) a uccidere, ma non sono abbastanza e mai lo saranno. Definire romanzo-verità questo racconto è un errore. Comprendere è impossibile.

Articolo scritto per il blog di GoodBook.it.

Viviana Calabria

Nicola Lagioia
La città dei vivi
2020
Einaudi Supercoralli
pp. 472
€ 22,00
ISBN 9788806233334

(Ri)educhiamoci ai sentimenti | Nuovissimo Testamento

Avvertenza: se fare i conti con la realtà vi provoca agitazione, non leggete questo articolo. E non leggete Nuovissimo Testamento di Giulio Cavalli.

Un giorno Fausto Albini disegna un cerchio nella sabbia, viene assalito da una sensazione, si sente male e viene ricoverato nel reparto Disturbi Affettivi nello Stato di DF.

Non è forse libertà essere scevri da ogni condizionamento e non avere pensieri laterali che irrompono durante la giornata?

Inutile prenderci in giro, la risposta è sì. A DF il governo non viene eletto ma imposto, e la carica di presidente si tramanda di generazione in generazione. Per rendere possibile la gestione di una nazione fatta di uomini, e quindi delle loro complessità ingestibili, si è trovato un modo per rendere piane le persone: cancellare il sentire. Tutto è regolamentato e deciso dal governo, dai colori di abiti, edifici, oggetti sono sempre più neutri perché possano passare inosservati fino al mestiere di ognuno e alla collocazione dei cittadini in classi con la possibilità di essere promossi o regredire in base al comportamento e alla redditività; e “se c’è qualcuno che dice che qui a DF costringiamo le persone a intraprendere il mestiere che decidiamo noi come autorità di governo significa che non ha capito come va il mondo, non ha capito che l’economia è la summa della politica perché significa incastrare i numeri, le nascite, i morti, gli uomini, le donne e i talenti in un quadro che non si può permettere di cedere in nessuno dei suoi lati”. Sono bandite le arti che da sempre creano rivoluzione, il pensiero libero e il libero arbitrio. Il gusto non esiste, gli alimenti cambiano ogni settimana secondo delle tabelle che indicano per ognuno il giusto fabbisogno giornaliero per sopravvivere. Non esiste il senso della famiglia, le coppie vengono formate in base a classe sociale e caratteristiche per un periodo di tempo, soltanto per riprodursi. I bambini nati vengono allevati dal governo. Gli anziani nascosti in strutture apposite sino alla fine dei loro giorni perché è di cattivo esempio vederli oziare. Il Paese deve solo produrre. Non esistono emozioni, non esistono domande. Non esistono bisogni.

Nel governo di DF avevano infatti studiato a lungo il fatto che la mancanza di empatia fosse la garanzia più solida e importante per il mantenimento del potere e del governo: se l’uomo non si riconosce tra simili non riesce a dare un nome ai propri bisogni. Un uomo che non riconosce i propri bisogni non possiede il vocabolario della democrazia.

I cittadini diventano un gregge mansueto che non ha contezza di vivere una situazione di dittatura. Il governo riesce a far presa su di loro perché si propone come un liberatore dal dubbio e dalla sofferenza derivanti dalle scelte che dobbiamo compiere ogni giorno, anche le più semplici come il pranzo o la cena, e dalla trattativa continua nelle relazioni. Il governo riesce a imporsi perché si professa vicino al cittadino, un risolutore e un facilitatore della loro vita e, di conseguenza, qualcuno che lavora per la felicità e la riuscita di ognuno. Ma mentre in DF riesce a farlo con un sotterfugio, un vaccino che viene iniettato di nascosto ai bambini e che addormenta il sentire e l’empatia, nella nostra società l’arma utilizzata è quella della propaganda attraverso la televisione, della paura, dell’omologazione, dei continui stimoli immediati e passivi che portano a considerare l’arte come un vezzo borghese noioso e inutile. La letteratura non ha attrattiva, il tempo è sempre più veloce e bisogna inseguirlo.
Anche la nostra società punta a produrre: non decidono il nostro lavoro ma ci costringono fare delle scelte che seguano il mercato. Io me li ricordo gli articoli in cui si indicavano le professioni del futuro, le professionalità più ricercate e quelle umanistiche hanno sempre il numero in negativo.
Possiamo aggiungere a tutto questo l’età pensionabile sempre più alta, la gavetta dei giovani sempre più lunga in attesa di qualcosa che non arriva e che neanche vogliamo ma ci troviamo a desiderare, l’odio di classe e le pubblicità sull’orologio biologico delle donne. Per fare solo qualche esempio banale.
A DF anche il linguaggio è condizionato e la socialità è condizionata. Ridotta ai minimi termini, solo qualche convenevole e battute di spirito con conoscenti, colleghi e moglie/marito assegnato. A DF le televisioni sono tanto più grandi quanto più è alta la classe di appartenenza. Indicativo di come questo mezzo abbia inciso su di noi e sul nostro modo di parlare e di pensare, così come sul rapportarci agli altri: molto spesso, troppo spesso, gli scambi tra persone riguardano proprio programmi televisivi come soap operatalk show e reality che entrano completamente nella nostra realtà. Creano una comunità. Superficiale. Tutto è viziato, qui e a DF, votato a rassicurare.
Ma in tutti gli Stati qualcuno sfugge alle regole. Nel romanzo le Brigate Sentimentali agiscono in segreto e spacciano di tutto: cibo, vestiti, musica e libri. Imporre delle novità che stridono con l’abitudine non sempre sortisce gli effetti sperati. A DF accade proprio questo perché “per costruire emozioni bisogna averne il vocabolario mentre i cittadini di DF sono analfabeti. Volete raccontare una bella storia a gente che non capisce la vostra lingua”.
Anche se oggi l’arte non è scomparsa, viene comunque considerata come non necessaria, da istituzioni e cittadini. Bisogna educare le persone, educarle al bello.

È facile, disse Fausto Albini, educare la gente al brutto, basta lasciarla cadere e poi farla strisciare e rassicurarla che è normale, educare alla bellezza significa aprire il cuore e farci entrare tutto dentro, come la bocca di un balena in fondo all’oceano, entra il bello certo e ci entrano certi pezzi di vetro ed entra l’aria ispida e entra tutto e non ci possono essere filtri nelle branchie di un popolo che ha disimparato a respirare.

Permettetemi di dire che nelle arti non tutto rientra nel bello e rimanendo nell’ambito letterario, banalmente, ci sono i libri belli e i libri brutti. Educare al bello significa certo educare a riconoscerlo, a goderne, a stupirsi come riescono solo i bambini e come succede a Fausto Albini la prima volta che legge un libro in ospedale, di nascosto, scoprendo altri mondi altre idee, un altro possibile. Che poi è questa la forza della letteratura no?
A DF però chi mostra uno scostamento dalla rotondità affettiva, senza spigoli da smussare per creare spiragli dall’intorpidimento, viene descritto come malato, o ancora diverso. Le Brigate Sentimentali, una volta uscite allo scoperto, fanno notizia e sui giornali, anzi il giornale, si spreca inchiostro. Le loro foto vengono modificate per sembrare più scure, e loro più sinistri. Diventano altro. Questo altro è pericoloso, un terrorista, il colpevole su cui riversare tutta la rabbia. Perché a un certo punto il governo, per combattere le Brigate Sentimentali, decide di riportare la paura nei cittadini. Una paura illogica che viene instillata dall’alto e che porta al sospetto e istiga alla vendetta. Una paura che viene utilizzata per accrescere il potere del governo, salvatore dei cittadini. Una paura quindi del diverso e di qualcuno che vuole espropriare loro beni e benefici.
Lo scostamento va risolto, curato nel senso più invasivo. Anche nascosto.
A me ricorda proprio la paura che fanno crescere in noi per chiunque non sia italiano o non sia bianco. Andando ad allargare la visuale, penso a come si nascondano le carceri, fuori dalla vista non esistono, non sono parte della città. Ma qui il discorso è ampio.
La scrittura di Giulio Cavalli è perfetta per un racconto così duro e lucido di una società che potrebbe diventare la nostra società se non ci diamo una svegliata. Estremizza situazioni esistenti con parole precise e mai strabordanti, enfatizza la ripetitività, l’aridità, la superficialità e l’inutilità di una vita volta alla produzione descrivendo minuziosamente le abitazioni tutte uguali o i colori bianchi e grigi segnalati da numeri per definire sfumature inesistenti. Sembra una scrittura pacata e piatta come la vita a DF e ma si avverte un movimento sotterraneo.
È una linfa che scorre inarrestabile quella dell’individualità, della libertà, della curiosità e dell’amore, in continuo mutamento e ricambio.


Però Giulio Cavalli ci frega. Ci parla di rivoluzioni ma anche di una società senza violenza e a cui tutti possono contribuire e in cui vivere con dignità. Siamo sicuri che, se ci fosse un referendum, voteremmo per l’arte, la violenza, la trattativa, la sofferenza e non per una calma piatta?
Chissà che il Nuovissimo Testamento non indichi una nuova venuta.

Viviana Calabria

Giulio Cavalli
Nuovissimo Testamento
2021
Fandango Libri
pp. 276
€ 19,00
ISBN 9788860447098

Vinpeel degli orizzonti

“Speranza”
è quando vuoi che qualcosa accada.
Ma lo devi volere davvero tanto affinché accada davvero.

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Credo che speranza sia la parola giusta per descrivere l’esordio di Peppe Millanta, un romanzo malinconico e delicato in cui ogni personaggio ha ormai dimenticato cosa significhi essere felici.

Dinterbild “è dove si arriva quando si decide di seppellire tutto. E dove, alla fine, si dimentica persino quando e perché si è venuti”. L’autore costruisce un posto immaginario, un piccolo paese abitato da 60 persone, circondato dal mare. Nessuno vi esce e nessuno vi entra, o meglio vi ci scivola dentro senza sapere come. Dinterbild, a pensarci, potrebbe rappresentare la nostra mente: uno spazio chiuso da certezze, delusioni, idee che ci siamo costruiti con l’esperienza e che soltanto attraverso i sogni raggiunge l’Altrove. Ma dai sogni ci si risveglia sempre.

Vinpeel, protagonista del romanzo, è un bambino solo. Ha un amico immaginario, Doan, e un padre che non ha mai tempo per lui, sempre occupato e preoccupato, lo incontriamo soltanto di sera quando, una volta scritta l’ultima parola, chiude la lettera in una bottiglia e la lascia nel mare. Poi raccoglie conchiglie e le porta con sé.

“Perché quello che Ned Bundy collezionava non erano le conchiglie, ma il rumore del mare che avevano dentro. Le storie che portavano.”

Ned Bundy porta un grande dolore dentro di sé, tanto grande da coprire tutto il resto e non accorgersi dei tentativi di Vinpeel di raccontare la sua di storia al padre, e allora sceglie di farlo nel solo modo che il padre conosce: sussurrando alle conchiglie nella speranza che il padre raccolga e ascolti proprio le sue.

Il mare è un altro grande protagonista del romanzo: è ciò che divide il paese da tutto il resto, è il mezzo con cui inviare messaggi, è violenza, è pensiero. Il mare esiste per essere un confine da superare, perché qualcosa esiste anche se tutti cercano di non saperlo e giudicano matto colui che tenta di volare per andare via da lì. Vinpeel, con l’ingenuità della sua età e con la speranza, tenterà di trovare l’Altrove cercando nei modi più bizzarri: con una fionda o svuotando il mare. Lui lì ci è finito per sbaglio, perché affidato al padre, e non riesce a capire come i suoi concittadini non vogliano scoprire il mondo.

“A volte le vite dei grandi si inceppano, Vinpeel. Anche quelle che andavano una meraviglia possono incepparsi da un momento all’altro. E il più delle volte non si riesce a farle andare avanti neanche di un metro. Puoi stare lì a spingerle per ore, puoi anche farti aiutare da chi ti vuole bene, ma non si riesce proprio a farle ripartire. […] Perché capita di perdere l’occasione per essere felici.”

Che questo libro possa essere quella spinta ad accettare il passato, il dolore, ciò che è finito e non tornerà nella consapevolezza che altro ci aspetta; che la felicità la si può trovare guardando con occhio diverso la vita e andando sempre avanti, passo passo, senza fretta ma aggiungendo un tassello dopo l’altro ai giorni. Guardandosi intorno, a chi ci vuole bene ha bisogno di noi, perché può riempirci.

Soli insieme/La manutenzione dei sensi

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«Le ore di cammino nella notte erano le preferite di Martino. Nessuna domanda, nessuna parola, solo occhi spalancati, piccoli gesti e passi misurati per non fare rumore; inizialmente impacciati poi sempre più fluidi, naturali fino a essere parte di quel momento e di quell’ambiente. Come i rami sottili d’arbusto che tremolano al vento lieve, un cumulo di neve che diventa liquido e trasparente e si immerge nella terra, un pipistrello in caccia che sfreccia silenzioso tra gli alberi. I nostri sicuri cammini notturni, ben diversi da certi nebbiosi e inquietanti ritorni a casa nelle serate milanesi, erano contemplati da Martino come “la manutenzione dei sensi”.»

 

Se dovessi usare una parola per descrivere questo libro senza ombra di dubbio sarebbe “salvifico”. Per i lettori, forse, perché potrebbe portare una comprensione dei rapporti umani. Per i personaggi sicuramente.

La storia, narrata in prima persona, ci parla di un uomo che, dopo la morte della moglie, osserva la sua vita con un certo distacco. Vive a Milano e scrive, ha una figlia che presto partirà per inseguire la carriera e Martino, un bambino di 8 anni da accudire per dargli una vita migliore, lontano dall’orfanotrofio. La vita in città inizia ad andare stretta a Leonardo che decide di trasferirsi in montagna, in una grande casa che ha fatto costruire in “memoria” della moglie Chiara e lì, tra i monti silenziosi, si compirà un piccolo miracolo.

Ho parlato di salvezza perché i tre protagonisti saranno, l’uno per laltro, un appoggio fondamentale per la vita. Nina lo sarà per il padre, perché con la sua risata e la sua giovinezza, lo costringerà a occuparsi di lei una volta soli e lo sarà per Martino, che troverà calore e amore in una famiglia. Martino e Leonardo si salveranno a vicenda: Leonardo, poco convinto di questa scelta, si renderà conto che Martino è entrato a far parte della famiglia senza fare rumore.

«Io, considerandolo una persona che da un giorno all’altro sarebbe potuta andar via, lo guardavo con un po’ di distacco, non mi facevo coinvolgere, lo lasciavo fare. Forse era per questo che in qualche modo gli piacevo, guadagnandomi, a volte, immotivati sorrisi, che affioravano da chissà dove.»

E la montagna riuscirà a crearlo questo legame perché i suoi silenzi e i suoi tempi rilassati accoglieranno i loro caratteri chiusi e solitari, i loro passi stanchi o pensierosi, potranno scegliere di aprirsi agli altri o rimanere tra le mura del loro rifugio. Vivranno la vita che hanno scelto e questa scelta, condivisa, li aiuterà a trovarsi e capirsi. E la Sindrome di Asperger, che può tanto spaventare, viene qui descritta come un modo di essere che nulla a che vedere con la malattia. Martino diventerà un adolescente taciturno ma con tanta voglia di fare, brillante in ciò che ritiene di utilità e interesse, farà grandi passi nei rapporti con le altre persone smussando quei modi di fare più scontrosi, trovando nel lavoro nei campi e in Augusto un importante sostegno per questo percorso verso la vita.

«Sì, ha quasi otto anni. Un bellissimo bambino, con un carattere che giudicheresti subito perfetto. Parla pochissimo, si fa sempre i fatti suoi, non ama le smancerie, è adattabile, non si lamenta mai, dove lo metti sta. Ha l’aria smarrita di un sognatore… il tuo ritratto spiccicato.»

 

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L’assenza presente/A misura d’uomo

“…si ritrova ad allungare una mano sul suo viso, a percorrere la cicatrice con un dito, a sfiorare la sua colpa sulla faccia di Davide…”

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In Emilia-Romagna, all’interno di un immaginario triangolo che collega Modena, Reggio Emilia, Parma e Mantova, sorge Fabbrico con il suo verde, il parco giochi, l’acquedotto e il cimitero con quella lapide nera e il nome in oro e le case sempre uguali, solo più vecchie.

A Fabbrico trascorrono le vite di Davide, Anela, Valerio, Mario ed Elena, Luigi, Giovanni, Bice, Maddalena e poi “lei, la sposa, sua moglie” e  il marito, indissolubilmente legati tra di loro per essere rimasti o tornati in quella città “a misura d’uomo” e per i rapporti che intercorrono. E per Davide, costante ricordo e assenza presente nei loro giorni.

Roberto Camurri racconta di uomini e donne nei loro gesti quotidiani, descrivendone ogni istante, ogni particolare in assenza di dialoghi, come se dovesse accadere qualcosa di irreparabile da un momento all’altro. Quando quel qualcosa avviene, nel momento in cui un equilibrio si spezza e si ricompone, non vi è riscontro nella lettura: è l’ordine naturale delle cose, fa parte del ciclo della vita e di questo l’autore ne fa un punto di forza. Il racconto prosegue, cambia punto di vista, ma non subisce interruzioni creando subito un nuovo quadro, una nuova istantanea in cui immergere lo sguardo.

“Dopo l’incidente Valerio era partito per la città e lei era rimasta sola. Davide non aveva mai detto nulla di quella notte, di cos’era successo, e lei lo aveva maledetto per quello, per il suo silenzio, aveva maledetto se stessa per per non avere avuto il coraggio di andarsene, per non aver smesso di amarlo, per essere rimasta a guardarsi nello specchio del bagno dicendosi che lei, alla fine, era quella che rimaneva.”

Su tutto aleggia un senso di perdita, di sconfitta e di tristezza che rende anche i bei momenti, il ritrovarsi di Anela e Valerio e la nascita della figlia, sbiaditi, soffocati, in un ridimensionamento della felicità che porta dentro un senso di colpa nei confronti di Davide, un tradimento di entrambi nei suoi confronti che frena quella gioia di avere una famiglia unita grazie a un amore sempre esistito ma che ha visto la luce soltanto con la morte.

Ogni ritratto, ogni episodio di quello che può essere definito “romanzo in racconti”, porta alla luce un’umanità che conosce l’amicizia, quella che va al di là di ogni cosa, anche della morte, che impara dagli sbagli e che non si vergogna di tornare indietro. Di quell’umanità che si lascia andare all’alcool dimenticandosi della persona che era, dell’amore che aveva, fino a non riconoscersi negli occhi dell’altra. Di donne che non vogliono figli perché la malattia le ha spezzate, che credono di potersi permettere soltanto amori a metà, ma poi succede l’inevitabile e si aprono gli occhi. Di uomini piegati alla vecchiaia, che non accettano di non potersi bastare nonostante anni di guerra, e che di fronte alla violenza del fascismo che tanto hanno rifiutato, cedono. Di coppie ormai cadute troppo in basso, il cui rapporto si basa sulla sopportazione e la morte lo rende più facile. Di uomini e donne che rimangono insieme nonostante la mente non risponda più come dovrebbe.
Di noi.

“Mario pensa a Davide, pensa a dove sarà, se si sarà svegliato nel frattempo, e pensa a come starà, se sarà venuto a cercarlo, se avesse voluto dirgli qualcosa, e poi gli viene in mente cosa si sono detti ieri notte, ho fatto una cazzata, pensa, e gli sale un’ansia che fatica a controllare.
[…]
E Mario si gira e vede una lapide nera, vede il nome scritto d’oro, e si inginocchia davanti al nome scritto d’oro di Davide, davanti al suo viso sorridente e incorniciato.”

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