(Ri)educhiamoci ai sentimenti | Nuovissimo Testamento

Avvertenza: se fare i conti con la realtà vi provoca agitazione, non leggete questo articolo. E non leggete Nuovissimo Testamento di Giulio Cavalli.

Un giorno Fausto Albini disegna un cerchio nella sabbia, viene assalito da una sensazione, si sente male e viene ricoverato nel reparto Disturbi Affettivi nello Stato di DF.

Non è forse libertà essere scevri da ogni condizionamento e non avere pensieri laterali che irrompono durante la giornata?

Inutile prenderci in giro, la risposta è sì. A DF il governo non viene eletto ma imposto, e la carica di presidente si tramanda di generazione in generazione. Per rendere possibile la gestione di una nazione fatta di uomini, e quindi delle loro complessità ingestibili, si è trovato un modo per rendere piane le persone: cancellare il sentire. Tutto è regolamentato e deciso dal governo, dai colori di abiti, edifici, oggetti sono sempre più neutri perché possano passare inosservati fino al mestiere di ognuno e alla collocazione dei cittadini in classi con la possibilità di essere promossi o regredire in base al comportamento e alla redditività; e “se c’è qualcuno che dice che qui a DF costringiamo le persone a intraprendere il mestiere che decidiamo noi come autorità di governo significa che non ha capito come va il mondo, non ha capito che l’economia è la summa della politica perché significa incastrare i numeri, le nascite, i morti, gli uomini, le donne e i talenti in un quadro che non si può permettere di cedere in nessuno dei suoi lati”. Sono bandite le arti che da sempre creano rivoluzione, il pensiero libero e il libero arbitrio. Il gusto non esiste, gli alimenti cambiano ogni settimana secondo delle tabelle che indicano per ognuno il giusto fabbisogno giornaliero per sopravvivere. Non esiste il senso della famiglia, le coppie vengono formate in base a classe sociale e caratteristiche per un periodo di tempo, soltanto per riprodursi. I bambini nati vengono allevati dal governo. Gli anziani nascosti in strutture apposite sino alla fine dei loro giorni perché è di cattivo esempio vederli oziare. Il Paese deve solo produrre. Non esistono emozioni, non esistono domande. Non esistono bisogni.

Nel governo di DF avevano infatti studiato a lungo il fatto che la mancanza di empatia fosse la garanzia più solida e importante per il mantenimento del potere e del governo: se l’uomo non si riconosce tra simili non riesce a dare un nome ai propri bisogni. Un uomo che non riconosce i propri bisogni non possiede il vocabolario della democrazia.

I cittadini diventano un gregge mansueto che non ha contezza di vivere una situazione di dittatura. Il governo riesce a far presa su di loro perché si propone come un liberatore dal dubbio e dalla sofferenza derivanti dalle scelte che dobbiamo compiere ogni giorno, anche le più semplici come il pranzo o la cena, e dalla trattativa continua nelle relazioni. Il governo riesce a imporsi perché si professa vicino al cittadino, un risolutore e un facilitatore della loro vita e, di conseguenza, qualcuno che lavora per la felicità e la riuscita di ognuno. Ma mentre in DF riesce a farlo con un sotterfugio, un vaccino che viene iniettato di nascosto ai bambini e che addormenta il sentire e l’empatia, nella nostra società l’arma utilizzata è quella della propaganda attraverso la televisione, della paura, dell’omologazione, dei continui stimoli immediati e passivi che portano a considerare l’arte come un vezzo borghese noioso e inutile. La letteratura non ha attrattiva, il tempo è sempre più veloce e bisogna inseguirlo.
Anche la nostra società punta a produrre: non decidono il nostro lavoro ma ci costringono fare delle scelte che seguano il mercato. Io me li ricordo gli articoli in cui si indicavano le professioni del futuro, le professionalità più ricercate e quelle umanistiche hanno sempre il numero in negativo.
Possiamo aggiungere a tutto questo l’età pensionabile sempre più alta, la gavetta dei giovani sempre più lunga in attesa di qualcosa che non arriva e che neanche vogliamo ma ci troviamo a desiderare, l’odio di classe e le pubblicità sull’orologio biologico delle donne. Per fare solo qualche esempio banale.
A DF anche il linguaggio è condizionato e la socialità è condizionata. Ridotta ai minimi termini, solo qualche convenevole e battute di spirito con conoscenti, colleghi e moglie/marito assegnato. A DF le televisioni sono tanto più grandi quanto più è alta la classe di appartenenza. Indicativo di come questo mezzo abbia inciso su di noi e sul nostro modo di parlare e di pensare, così come sul rapportarci agli altri: molto spesso, troppo spesso, gli scambi tra persone riguardano proprio programmi televisivi come soap operatalk show e reality che entrano completamente nella nostra realtà. Creano una comunità. Superficiale. Tutto è viziato, qui e a DF, votato a rassicurare.
Ma in tutti gli Stati qualcuno sfugge alle regole. Nel romanzo le Brigate Sentimentali agiscono in segreto e spacciano di tutto: cibo, vestiti, musica e libri. Imporre delle novità che stridono con l’abitudine non sempre sortisce gli effetti sperati. A DF accade proprio questo perché “per costruire emozioni bisogna averne il vocabolario mentre i cittadini di DF sono analfabeti. Volete raccontare una bella storia a gente che non capisce la vostra lingua”.
Anche se oggi l’arte non è scomparsa, viene comunque considerata come non necessaria, da istituzioni e cittadini. Bisogna educare le persone, educarle al bello.

È facile, disse Fausto Albini, educare la gente al brutto, basta lasciarla cadere e poi farla strisciare e rassicurarla che è normale, educare alla bellezza significa aprire il cuore e farci entrare tutto dentro, come la bocca di un balena in fondo all’oceano, entra il bello certo e ci entrano certi pezzi di vetro ed entra l’aria ispida e entra tutto e non ci possono essere filtri nelle branchie di un popolo che ha disimparato a respirare.

Permettetemi di dire che nelle arti non tutto rientra nel bello e rimanendo nell’ambito letterario, banalmente, ci sono i libri belli e i libri brutti. Educare al bello significa certo educare a riconoscerlo, a goderne, a stupirsi come riescono solo i bambini e come succede a Fausto Albini la prima volta che legge un libro in ospedale, di nascosto, scoprendo altri mondi altre idee, un altro possibile. Che poi è questa la forza della letteratura no?
A DF però chi mostra uno scostamento dalla rotondità affettiva, senza spigoli da smussare per creare spiragli dall’intorpidimento, viene descritto come malato, o ancora diverso. Le Brigate Sentimentali, una volta uscite allo scoperto, fanno notizia e sui giornali, anzi il giornale, si spreca inchiostro. Le loro foto vengono modificate per sembrare più scure, e loro più sinistri. Diventano altro. Questo altro è pericoloso, un terrorista, il colpevole su cui riversare tutta la rabbia. Perché a un certo punto il governo, per combattere le Brigate Sentimentali, decide di riportare la paura nei cittadini. Una paura illogica che viene instillata dall’alto e che porta al sospetto e istiga alla vendetta. Una paura che viene utilizzata per accrescere il potere del governo, salvatore dei cittadini. Una paura quindi del diverso e di qualcuno che vuole espropriare loro beni e benefici.
Lo scostamento va risolto, curato nel senso più invasivo. Anche nascosto.
A me ricorda proprio la paura che fanno crescere in noi per chiunque non sia italiano o non sia bianco. Andando ad allargare la visuale, penso a come si nascondano le carceri, fuori dalla vista non esistono, non sono parte della città. Ma qui il discorso è ampio.
La scrittura di Giulio Cavalli è perfetta per un racconto così duro e lucido di una società che potrebbe diventare la nostra società se non ci diamo una svegliata. Estremizza situazioni esistenti con parole precise e mai strabordanti, enfatizza la ripetitività, l’aridità, la superficialità e l’inutilità di una vita volta alla produzione descrivendo minuziosamente le abitazioni tutte uguali o i colori bianchi e grigi segnalati da numeri per definire sfumature inesistenti. Sembra una scrittura pacata e piatta come la vita a DF e ma si avverte un movimento sotterraneo.
È una linfa che scorre inarrestabile quella dell’individualità, della libertà, della curiosità e dell’amore, in continuo mutamento e ricambio.


Però Giulio Cavalli ci frega. Ci parla di rivoluzioni ma anche di una società senza violenza e a cui tutti possono contribuire e in cui vivere con dignità. Siamo sicuri che, se ci fosse un referendum, voteremmo per l’arte, la violenza, la trattativa, la sofferenza e non per una calma piatta?
Chissà che il Nuovissimo Testamento non indichi una nuova venuta.

Viviana Calabria

Giulio Cavalli
Nuovissimo Testamento
2021
Fandango Libri
pp. 276
€ 19,00
ISBN 9788860447098

Speciale GoodBook/Intervista a Leonardo Malaguti

L’editore del mese | Intervista a Leonardo Malaguti, scrittore

 

Per la rubrica “Editore del mese” dedicata a Exòrma Edizioni, ho intervistato il giovane autore Leonardo Malaguti, in libreria con il suo romanzo d’esordio Dopo il diluvio.

Giovanissimo autore, classe ’93, ti dedichi alla scrittura e alla sceneggiatura oltre che alla regia. È indubbio che il romanzo, finalista al Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza, risenta di questa tua formazione nella capacità che hai di dar vita a immagini subito visibili e percepibili al lettore, proprio come in un film. Credi che, al di là del tuo caso, questa possa essere una tendenza della narrativa contemporanea, che vuole avvicinarsi di più al potere che hanno le immagini nella nostra società?

“Credo proprio che si tratti di una caratteristica sempre più comune nella letteratura contemporanea, ma non penso sia semplicemente una “tendenza”: l’immagine non è solo potente, al giorno d’oggi è un elemento primario e imprescindibile del linguaggio, della cultura, della quotidianità. Dunque più che di “tendenza” parlerei di evoluzione del pensiero: la scrittura si fa “visiva” perché chi scrive non ragiona più esclusivamente per concetti astratti, ma anche per input (audio)visivi. Il correlativo oggettivo non è più soltanto una formula poetica di quelle che si studiano a scuola, ma la forma mentis del pensare moderno. Sforzarsi di scrivere “per immagini”, dunque, non è più necessario: basta scrivere.”

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Leonardo Malaguti

Inganno, pazzia, terrore, sesso, delitto, paranoia e rape sono i termini che rappresentano perfettamente quello che è il tuo romanzo d’esordio, Dopo il diluvio, e che utilizzi, infatti, nel booktrailer. Come si legano, quindi, alla storia che hai raccontato?

“Rimandano ognuno a elementi ricorrenti del racconto, ma penso che potrebbero essere racchiusi tutti (eccetto le rape, credo) nel concetto di paranoia: Dopo il diluvio infatti, più che un giallo, un horror, una tragicommedia, una pièce surreale – o qualsiasi altra definizione di genere che si potrebbe trovare – è uno “studio narrativo” su come una comunità possa reagire di fronte a situazioni estreme e di come basti poco a tramutare la paura dell’ignoto del singolo individuo in isteria collettiva, con tutto ciò che ne deriva. Per quanto riguarda le rape… beh, sono bitorzolute e dure, come le teste dei paesani.”

“Qui si scrive male” è una collana di Èxòrma che sta dando grandi soddisfazioni alla casa editrice e ai lettori. Secondo una definizione data dagli stessi editori, lo scopo è quello di “trascurare le scritture sfiancate e addomesticate alla necessità del farsi vedere e sbarrare il passo all’omologazione dei contenuti, alle strettoie dei generi.” Come si inserisce qui il tuo romanzo?

“Citando quasi testualmente frasi che ho sentito a lungo rivolgere al romanzo dai rappresentanti di varie case editrici prima di approdare in Èxòrma: non si inserisce in nessun genere, la trama non si può riassumere in una frase, non è un romanzo “di tendenza”, prende strade inaspettate che spiazzano il lettore (in positivo o negativo, questo non sta a me dirlo). C’è chi l’ha paragonato a un grande teatro di posa allestito in ogni minimo dettaglio, in cui bisogna imparare ad ambientarsi. Molti sul mercato le vedono come debolezze, in Èxòrma sono considerati punti di forza.”

Il tuo romanzo inizia con un diluvio che colpisce un paese dislocato in una valle, e racconta di ciò che accade dopo la catastrofe. Regna l’anarchia, gli uomini danno mostra del lato peggiore di sé, si cerca in tutti i modi un capro espiatorio, in più c’è la figura del Generale Krauss, (per caso si rifà al generale nazista?) un singolo che cerca di creare pian piano un nuovo ordine. Credi che sia necessaria una “pulizia” generale per tentare di recuperare quel che di buono è rimasto nella nostra società? Credi che ci sia una regressione della società e un tentativo di creare un nuovo ordine anche oggi? Insomma, quale è il legame con l’oggi?

“A essere sinceri non avevo idea dell’esistenza di un vero Generale Krauss finché non ho cercato su Google dopo aver letto questa domanda e la coincidenza mi diverte molto. Il caso, come sempre, ha la meglio. Probabilmente il finto Krauss avrebbe avuto simpatie naziste, ma destinate a non durare: è un personaggio troppo scomodo e fuori dagli schemi, sarebbe finito presto nella lista nera del partito. Non credo affatto alla necessità né tantomeno alla bontà di una “pulizia”, ma non so se si possa parlare di regressione. Sicuramente viviamo in tempi caotici, siamo a uno snodo storico e culturale e come sempre al cambiamento si accompagnano ondate reazionarie. Non penso che la società di oggi sia “peggiore” di trenta, sessanta, novant’anni fa (non significa che sia migliore, ovviamente) e non mi piace la nostalgia irrazionale perché si basa spesso e volentieri su proiezioni idealistiche invece che sui fatti: è la paura dell’ignoto a generarla, la paura di doverci adattare a qualcosa che non conosciamo, di perdere quello che abbiamo e di perderci noi stessi. C’è sempre chi si oppone a questi movimenti e cerca di stabilire arbitrariamente l’ordine, e basta guardarci intorno per capire che sta succedendo e dove purtroppo ci sta portando. Un ordine forzato non è ordine. L’ordine, se esiste, è spontaneo, ma ci si fa presto l’abitudine e dura poco. Imparare a gestire il disordine è l’unica maniera per trovare una qualche forma di pace. Il paese del romanzo è un riflesso a-storico e stilizzato di tutto questo.”

Èxòrma ha pubblicato da poco Neghentopia, un testo molto particolare di Matteo Meschiari che credo abbia qualche legame con il tuo in quanto Matteo racconta di un mondo ormai distrutto, di un’apocalisse inevitabile che, secondo l’autore, è già in atto in alcune parti del nostro mondo e non tarderà a colpire anche noi, causata dalla nostra indifferenza per l’ambiente. Secondo Matteo, quindi, non vi è alcuna speranza di salvezza. Secondo te?

“Sicuramente con Matteo condivido la predisposizione al pessimismo, ma credo si tratti di due sfumature diverse: sotto la scorza cinica rimango ingenuamente affascinato dal disastro e riesco a scorgervi se non una speranza, un barlume di bellezza, e mi domando se, dopotutto, non sia giusto che le cose vadano in quella maniera. Mi terrorizza, desidero sinceramente che migliorino, ma la parte di me che riesce a rimanere razionale pensa: forse è orribile solo dal nostro antropocentrico punto di vista. E, in ogni caso, prima o poi, che lo si voglia o no, tutto deve terminare quindi meglio mettersi l’anima in pace (cosa comunque quasi impossibile da fare, giustamente, ma è bene almeno provarci). Neghentopia parla di quello che succede dopo l’Apocalisse, Dopo il diluvio di quello che succede subito prima: nel primo caso l’orrore si è già consumato, si è passati oltre, nel secondo tutto può ancora succedere. Non so se chiamarla speranza, o angosciante incertezza. In ogni caso non è rassicurante.”

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La copertina di Neghentopia di Matteo Meschiari

 

 C’è un passaggio molto bello nel libro: “Nessuno sa mai nulla. Per questo ci vuole qualcuno che racconti le storie, che trasformi il pettegolezzo in cronaca e la cronaca in letteratura, altrimenti la gente non ricorda, non conosce, non crede. I fatti sono sempre noiosi o troppo dolorosi da sostenere, per quello si tace, si ignora, si bisbiglia, sta dunque al poeta entrare in gioco – è una lotta farsi ascoltare.” È il compito della letteratura secondo il tuo modo di vedere?

“Parzialmente: questo passaggio è recitato da un personaggio estremamente colto e brillante, che però non si rende conto che la sua visione è profondamente limitata dal suo ego e dal suo cinismo. C’è della verità, e credo sia un’analisi abbastanza realistica dello stato attuale delle cose, ma trovo anche che il tema sia molto più ampio e sfaccettato, difficilmente riducibile a un aforisma.”

 

L’articolo è stato interamente ripreso da GoodBook, che ringrazio per la possibilità.

Una favola tenera/Dove porta la neve

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Autore: Matteo Righetto
Editore: Tea
Pagine: 148
Genere: Narrativa
Anno di pubblicazione: 2017

Letto grazie a Thrillernord

Matteo Righetto, classe ’44, ha pubblicato con Tea quella che si può definire una favola. Un romanzo breve il suo, ma denso di significato.

“Un montanaro non molla mai. È proprio nei momenti più duri che si forgia il suo destino!”

Ci troviamo a Padova ed è la vigilia di Natale. La città è ricoperta da uno spesso manto di neve e Nicola, settantaquattrenne solo e con pochi soldi, in tasca, prima di perdere il suo lavoro come Babbo Natale al centro commerciale, incontra Carlo, un uomo di quarantotto anni con la testa di un bambino: ha la sindrome di down.

Il loro incontro, singolare, cambierà le vite di entrambi. Nicola, per far contento il suo amico e per fare del bene, deciderà di intraprendere un viaggio in “Lapponia” per far incontrare Carlo e Babbo Natale così da trovare il regalo per la mamma di Carlo, costretta a letto in ospedale.

Attraverso pagine di narrazione della quotidianità dei due protagonisti e i ricordi della madre di Carlo, verremo a conoscenza delle loro vite e della loro solitudine, di un passato difficile ma fatto di determinazione. Matteo Righetto racconta con poche pennellate un intero mondo di sentimenti e sensazioni e lo fa con leggerezza, così come riesce a trattare la disabilità senza marcarla, mostrandola con pochi tratti come la ripetizione di frasi, evitando così inutili patetismi e frasi dalla lacrima facile.
E Nicola?
Un’anima sola da tempo, che non ha nulla se non una casa e ogni tanto qualche soldo per mangiare, ma che prende a cuore la situazione di Carlo e decide di intraprendere un viaggio per riempire il suo cuore di gioia, lasciargli ancora i suoi sogni da bambino e la magia del Natale.

Matteo Righetto riesce a parlare di tanto e a strappare un sorriso alla vista di un abbraccio, uno dei gesti più facili da compiere ma che spesso sottovalutiamo.

«La gente dice sempre: “Un abbraccio, ti abbraccio”, ma poi nessuno si abbraccia mai per davvero… Io vorrei vivere abbracciato!»

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Quando è troppo l’amore/Il peso minimo della bellezza

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LiberAria

«Quando cresci ti rendi conto che quel bacio, quello prima di entrare in classe o mentre aspetti il piatto al ristorante o mentre siete al parco, tu e tua madre, ecco quel bacio è il suo segno indelebile su di te. È la sua forma di aggressività passiva. Il suo schiaffo in faccia. È questo. E tu non lo vuoi. Perché è un bacio che pesa, pesa quanto tua padre, come se dovessi portarla sulle spalle per tutta la vita.»

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