
FASE I
Negazione
Dovresti ricordartelo il giorno che è morta tua madre. Io mi ricordo il giorno in cui sei morta tu. E credo anche a te sia durato un bel po’ il pensiero di lei dentro quella bara perché mi pare, a sentir dire la zia, che sia stato più o meno quello il periodo in cui hai deciso di mettermi al mondo. Volevi sostituirla? Che pensavi di fare? I parenti dicono che quel giorno piangevi come una disperata. Eri così disperata che il prete ha dovuto chiamare un’ambulanza e farti portare in ospedale. Ti sei persa anche il funerale di tua madre. Non un ultimo saluto. Niente. Non ho faticato a crederci neanche per un secondo. Dopotutto è tipico tuo quello di perderti le cose importanti. Dopotutto è tipico tuo venire prima degli altri. Non potevi permettere neanche il giorno che è morta, a tua madre, di essere la protagonista, dovevi avere anche tu la tua fetta di scena. E ti sei fatta venire le convulsioni da pianto, sei caduta a terra e hai cominciato a sbavare. Allora ti sono corsi tutti accanto, dicono che eri rigida come un tronco, che le gambe e le braccia ti si agitavano su e giù, che avevi gli occhi girati all’indietro e che dalla bocca ti usciva una schiuma bianca. Qualcuno ha gridato di tenerti la lingua per non fartela ingoiare e nel frattempo una ventina di telefoni hanno composto il numero dell’ambulanza che è arrivata a sirene spiegate. Tua madre intanto era morta e stava nella bara con le braccia incrociate sul petto. Stava lì immobile con la faccia pacifca e non guardava niente perché nel posto dove è andata non c’è più nessuna preoccupazione, da quel posto non poteva correre a vedere cosa stesse succedendo. Per la prima volta in vita tua, lei non è corsa. È rimasta impassibile alle tue convulsioni egoiste, alla tua disperazione infantile, al tuo modo di risolvere i problemi con un ricovero in ospedale. Lo facevi a tredici anni e lo hai fatto a venti. Forse volevi solo testare il numero di persone che si sarebbero preoccupate di te da quel giorno in poi, dal giorno in cui tua madre uffcialmente smetteva di farlo. E ce n’erano, di mani.
Ce n’erano tante. Chi ti toccava la fronte, chi ti teneva le gambe, chi ti ha preso la lingua. Tua cugina ti accarezzava i capelli. Tuo zio cercava di parlarti, è un fanatico della comunicazione lui, è uno di quelli che pensano che Cristo abbia resuscitato Lazzaro a parole. E tu forse eri il suo Lazzaro, sdraiata nella navata centrale della chiesa, ai piedi della bara di tua madre, con la faccia di una posseduta dal demonio, in preda alle convulsioni. Potevi morire e lui ti stava resuscitando. Svegliati, diceva. Svegliati. Non sapeva che era tutto sbagliato. Nessuno di loro sapeva che non avrebbe dovuto tenerti ferma perché potevi spezzarti le ossa, tanto eri rigida. Non sapevano che non si deve tenere la lingua perché con un morso avresti potuto staccarla e lasciargliela in mano. Non lo sapevano che era inutile cercare di svegliarti. Nel tuo oblio non sentivi niente. Anzi, ci eri caduta per non sentire niente. Non volevi svegliarti. Ti piaceva rimanere in quello stato sospeso dove nessuna cosa ha importanza e, anzi, avevi importanza solo tu. Tu, il soggetto di ogni frase. Tu, la protagonista di ogni ciak. Tu, che siccome tua madre è morta ti sentivi in diritto di impazzire sotto gli occhi dei presenti e cancellare tutto con un attacco epilettico.
Il peso minimo della bellezza
Azzurra de Paola