“Il dolore deve essere la cosa più importante della mia vita.”
Se vi dicessi che uno dei maggiori scrittori statunitensi di inizio ‘900 è italiano? Sono certa che il nome di Emanuel Carnevali sia ai più sconosciuto, e lo è stato anche per me fino a qualche mese fa, quando D editore ha deciso di riportarlo in patria.
“Il primo Dio” fu scritto da Carnevali durante il periodo di malattia, contrasse un’encefalite letargica, nel 1922. Morirà in un modo alquanto singolare: soffocato da un pezzo di pane.
Il testo in questione è un romanzo autobiografico in cui l’autore non manca di parlare della sua infanzia, della miseria patita, della follia forse gonfiandone la portata, ma è utile a comprendere l’etichetta di “poeta maledetto” che gli è stata affibbiata.
Dopo la morte della madre, per tetano, che lo costrinse a vivere di ristrettezze e dolore, conoscerà il padre, un uomo “nero dentro e fuori”, incapace di provare amore ma assolutamente in grado di far del male. Verrà spedito da lui in collegio fino scappare negli Stati Uniti, a solo 16 anni, dove troverà una breve fortuna fino a impazzire e tornare in Italia, dove morirà nel 1942.
Il testo è stato diviso in cinque parti che segnano i momenti fondamentali della vita di Carnevali. Il Bianco simboleggia l’infanzia dolorosa e il ricordo del latte d’asina che gli davano da bere, ma il bianco è anche il colore di quella “piccola luce sempre accesa” di speranza che le cose possano andare meglio.
Il Rosa rappresenta gli anni del collegio e delle prime esperienze sentimentali, di amore adolescenziali, distaccati, ma anche di amore vero e appassionato, quello per Giovanni. “Ma, benché odiassi il posto, io mescolavo il mio amore per il Canal Grande a quello per Giovanni: lui e Venezia erano gli splendori della mia vita”. Una sessualità ambigua la sua, ma certamente difficile in tempi in cui era davvero un peccato.
Il Nero è un colore che richiama il buio, il vuoto e la tristezza e segna il periodo vissuto a New York, la miseria e i numerosi e faticosi lavori che ha dovuto sopportare per poter avere un letto e un pasto. È anche il periodo in cui rivede il fratello ma le cose non vanno troppo bene, sono gli anni del matrimonio che non avrà un risvolto positivo. Ma sono soprattutto gli anni in cui la delusione maggiore è l’America, quel naufragare del sogno americano in cui tanto aveva sperato. “Quei famosi grattacieli altro non erano che enormi scatole che si ergevano davanti a noi, oppure di lato, terribilmente futili, spaventosamente poco importanti, tanto comuni che si sarebbe potuto credere di averli già visti in un altro posto.”
Ma “Chicago” e “L’Italia”, le ultime due parti del libro, riguardano il vero punto di svolta dell’autore che passa da un successo importante a un declino inevitabile, sino a raggiungere il punto di non ritorno.
Maledetto, sfortunato, Emanuel Carnevali meritava di far conoscere la sua voce anche qui. In America è ancora considerato un rappresentate importante della letteratura di quel periodo da alcuni suoi colleghi che di fortuna ne hanno avuta di più; nel suo periodo peggiore, quando una forma di follia prese il sopravvento sulla sua psiche, non fu abbandonato nonostante gli atteggiamenti spesso fastidiosi che aveva, e gli fu anche pagata una clinica molto costosa che tentava di curare questi suoi problemi. Carnevali arriverà perfino a immedesimarsi in Dio, nel Primo e Unico Dio di se stesso, il solo a poter decidere il proprio destino.
Una scrittura poetica in alcuni tratti, ironica ma che per me manca di quella disperazione, di quella forza che immaginavo, forse dovuta al fatto che il protagonista, nonostante le sofferenze e le difficoltà patite non ha mai smesso di tentare, di andare avanti senza sosta accettando ogni difficoltà, combattendo per quel bisogno impellente di scrivere che lo ha portato al successo per poi sgretolarsi in poco tempo. Che sia orgoglio o altro, è certo che Carnevali conosceva bene il perdono.