La depressione è come una corazza di dolore, talvolta. Altre volte, è il contrario.
Ti fa vibrare l’interno della pelle per venti gelidi, fino a ucciderti.

Io non lo so come parlare di questo libro. Sono mesi che ci giro intorno, lo riprendo, tento di sedermi al computer a scrivere ma le parole mi sfuggono. Sia chiaro, mi è piaciuto, mi ha colpita e mi ha spiazzata.
Tutto comincia, o forse finisce, con un infarto. E io mi chiedo: cosa significa sopravvivere con la consapevolezza che saresti potuto morire? La mia domanda non è casuale perché è capitato anche a una persona cara. Però io sono dalla parte della famiglia in apprensione. Ma l’infartuato? Come reagisce? Franco Scelsit si muove in questo suo stato depressivo tra cardiopizze, controlli in ospedale, corse folli con l’auto e la scrittura. È un tempo sospeso, quasi distante da sé.
La narrazione non segue un ordine cronologico e forse questo riesce maggiormente a trascinare il lettore nella psiche del protagonista. Ma chi è Scelsit? Un uomo giunto alla mezza età che odia la vecchiaia, ha paura della morte ma rischia con la sua auto super veloce. È un uomo che si sente ancorato agli anni ’70-’80 e quindi non ha alcun legame con una Milano poco ospitale. È un fallito che di storie ne ha avute poche, vive con una madre pressante e il fratello, vuole fare lo scrittore ma i suoi libri “seri” non gli hanno portato fortuna e quindi si ritrova a scrivere con uno pseudonimo dei gialli da autogrill.
Divenni un uomo che col proprio lavoro ci campava e benissimo, e certe insoddisfazioni più o meno svanirono. Anche se si insinuò in me una frustrazione nuova, quella dello scrittore che col proprio nome non riesce a farsi strada, mentre vince e convince con un’altra identità, nemmeno fosse il figlio – illeggittimo e paraculo – di se stesso.
Tra autobiografia e invenzione, le poche pagine di “Grandi momenti” pongono il lettore davanti a uno stato da cui il protagonista sempre non volerne uscire. E si aggrappa ai ricordi e alla rabbia che nutre verso un padre morto vent’anni prima al confine con la Jugoslavia, reo di aver rubato dei soldi. La rabbia per l’abbandono e per quello che sembra un comportamento egoistico, portano la follia a uno stato di allucinazione: Scelsit riconosce il padre in una lepre che più volte gli appare davanti la macchina ma troppo veloce da prendere, più veloce di qualsiasi macchina lui decida di comprare.
Chiamatela fiction o non fiction, ma l’opera di Franz Krauspenhaar esce dai canoni della letteratura italiana di questi anni, sia per un tono diretto e senza peli sulla lingua, sia perché pone al centro della narrazione la sensazione di solitudine di un uomo che sente solo il peso di non scelte fatte e di una inadeguatezza di fondo che aggiunge dolore su dolore.
Nonostante i lutti, le umiliazioni, gli insuccessi e anche i successi, io non vedo, in fondo, nient’altro che un cratere. nemmeno grande: un cratere seminascosto in mezzo alla campagna. E nessuno tranne me si accorge di quel cratere. La verità è questa.