Il confine tra bene e male non è mai così nitido

La commedia di Jean Giraudoux scritta nel 1943 è di grande attualità, si potrebbe dire che ai suoi tempi sia stata premonitrice di eventi che, nel mentre della scrittura, sembrano irreversibili. Da molti definita una favola ecologica, si può di certo dire che, come il presente, non ha un fine lieto. È una storia che, nel dramma sociale che si consuma, inserisce momenti di ironia amara che strappa sulle prime il sorriso, ma che poi si rivela nel suo significato secondo.
La parte dedicata all’ambiente è, invece, marginale: il discorso esiste, è presente e forse per i tempi era anche all’avanguardia, ma non è un aggettivo che inserirei per contraddistinguerla essendoci tanti punti accennati o meglio sviluppati e un tema grande e universale che è quello della lotta tra bene e male e, ancora più interessante, il confine che c’è tra le due facce quando si parla dell’essere umano. Pregi dunque dello spettacolo, ben riuscito anche nell’interpretazione di tutti gli attori, ma ne avrebbe giovato una minore durata perché il messaggio culturale e politico è chiaro sin dall’inizio quindi molte scene e personaggi di contorno non fanno altro che ribadire quanto già detto. La struttura, lineare e chiara tranne in pochi momenti, non restituisce l’umanità del popolo e la lotta contro chi vuole annientarli. Sembra di assistere a un qualcosa di ottimo dal punto di vista tecnico, ma di scarsa empatia per chi guarda.
Scendiamo ora nel dettaglio di queste due ore di spettacolo.

© Simone Di Luca

La scenografia è molto semplice: un tappeto che fa da giardino, tavolini e sedie. Facciamo subito la conoscenza di tre figure in giacca e cravatta, simili in tutto e per tutto a comuni uomini d’affari, seduti al tavolino più appartato: il Presidente (Francesco Migliaccio); il Barone (Mauro Malinverno) e lo Speculatore (Riccardo Maranzana) raccontano la loro tremenda ascesa sempre in onore del profitto a tutti i costi. Questo punto risulta forzato perché sembrano tra loro estranei e ciò che li colloca insieme in quel momento è un mistero. Chiaro, a ogni modo, l’intento di aver bisogno di dare una forma e una sostanza, una faccia, al male. Emblematico e maggiormente d’impatto il racconto dello Speculatore che nella sua carriera si è occupato di sfratti: ricorda in particolare i bambini così attaccati alle loro cose da dovergli spezzare (non lo esplicita se non con un chiaro gesto delle mani) le braccia per staccarli dai giochi e dai letti. Scopriamo finalmente lo scopo di quella triade: fondare di una nuova società che solo e soltanto di profitto si alimenta, con sotterfugi e imbrogli di cui si compiacciono.
Non importano il nome, lo scopo esplicito, la forma di società, meno domande si fanno meglio è per tutti. Un’altra figura, che fino a quel momento era di spalle a bere acqua seduta a un altro tavolino, prende parola. È il Prospettore (Giulio Cancelli), molto simile nell’abbigliamento e nei modi ai tre, che si avvicina mettendo sul tavolo un nome per la società (qui non è chiaro il passaggio dall’essere uno sconosciuto in un bar al ricevere denaro per la sua trovata); poi innesta nel gruppetto di affaristi un’idea, la sua idea: trivellare Parigi, in particolare il quartiere di Chaillot, per estrarre il petrolio e spazzare via la feccia. Intanto, prima e dopo questo momento, altra umanità fa la sua comparsa: Martial il cameriere (Davide Rossi), Irma (Zoe Pernici), il Sordomuto (Jacopo Morra), il Cenciaiolo (Giovanni Crippa) e la Fioraia (Miriam Podgornik), tutti malamente cacciati dai tre. Appare, poi, lei: la pazza di Chaillot. Aurelie (Manuela Mandracchia) vestita di stracci e accompagnata dal suo fido ombrello.
Quando il quartetto di cattivi si allontana, dopo aver minacciato proprio Aurelie di cancellarli dalla terra, inizia a farsi strada il piano per salvare Parigi e il loro microcosmo, simbolo di ogni quartiere e città del mondo che dovrebbe avere la forza di organizzarsi e insorgere, cosa che nei tempi moderni è sempre meno sentita se non in alcune occasioni. Aurelie, ora anziana e probabilmente aristocratica decaduta, vive in un mondo tutto suo dopo essere stata abbandonata dall’amato: non vede i mali del mondo, frequenta le persone del posto che vivono nella semplicità e delle piccole cose belle della quotidianità, le stesse che lei decanta poi a Pierre per convincerlo a non uccidersi.

© Simone Di Luca

È un personaggio, quello del pazzo di quartiere, che fa da sfondo in tante narrazioni e che non è scomparso dalle città, portatore di storie e di una qualche verità. A differenza sua, però, gli altri del popolo hanno ancora i piedi per terra e sono proprio loro a rivelarle il piano dei quattro uomini. Intanto che la sua mente cerca una soluzione, altri personaggi fanno la loro apparizione: una guardia (Riccardo Maranzana) chiamato a gran voce dalla stessa Aurelie che ha appena salvato un uomo che voleva buttarsi dal ponte, Pierre (Emanuele Fortunati). A poca distanza di tempo arriva una bagnina (Miriam Podgornik), emblema dei corsi che anche oggi spuntano come funghi soprattutto dalla Rete e che ti promettono di diventare esperto di tutto in poche lezioni. Convinta di poter salvare Pierre dall’annegamento, anche se in acqua non ci è mai caduto, ripete come una macchina tutte le regole del manuale comprese di numero di pagina in cui sono scritte: anche lei, nonostante il suo ruolo positivo da salvatrice di vite, in fondo cerca solo l’approvazione degli altri imparando tutto a memoria, ma senza saperlo davvero mettere in pratica; c’è una differenza con i quattro affaristi ma qui il confine tra bene e male non è così nitido.
La scena cambia. Il prato viene poggiato su un grande tappeto che identifica l’interno della casa di Aurelie. Scopriamo presto il suo piano grazie alla presenza del Fognaiolo (Jacopo Morra) che mostra alla padrona di casa come aprire e richiudere la botola che porta alle fogne. Giungono poi le due care amiche della donna, Gabrielle (Ester Galazzi) e Constance (Evelyn Famà) e danno vita a un siparietto molto allegro, ma troppo lungo, con tanto di cane impagliato che la sua padrona “finge” di portare con sé per compagnia, pur sapendo che il suo è morto, e la presenza di un uomo misterioso ma invisibile. Tra urla e risate scomposte Aurelie riesce a confidare alle due amiche quello che sta per accadere e decidono insieme di metter su un processo simbolico contro tutti quelli che si vendono al Potere e ai Soldi. Il Cenciaiolo è l’accusato che imbastisce uno dei discorsi dei tre uomini di cui all’inizio, togliendosi a un tratto i suoi cenci e mostrandosi in giacca e cravatta, assolutamente convincente tanto da destare dei dubbi sulla sua vera natura.
Il processo termina con una condanna senza appello, ma ora è la volta di mettere in atto il piano: far credere agli affaristi che le fogne sono un ottimo posto per trivellare, quindi li convince a scendere nella botola e lì li rinchiude. Un gesto che nella sua follia giudicheremmo di bontà e di sicura volontà di salvezza, ma siamo sicuri che sia così facile e netta la divisione?
Un enorme rombo risuona: la bomba è scoppiata ed è stato Pierre a farlo, complice da sempre del male. Quel male che non è scomparso con la morte dei quattro, perché come loro ce ne sono tanti altri in ogni luogo, come dimostrano i cloni sulla scena e il “balletto” con risata finale, mentre il sipario si chiude, del Presidente. Hanno vinto loro.

La pazza di Chaillot
di Jean Giraudoux
adattamento Letizia Russo
regia Franco Però
con Manuela Mandracchia, Giovanni Crippa, Giulio Cancelli, Evelyn Famà, Emanuele Fortunati, Ester Galazzi, Mauro Malinverno, Riccardo Maranzana, Francesco Migliaccio, Jacopo Morra, Zoe Pernici, Miriam Podgornik, Davide Rossi
scene Domenico Franchi
costumi Andrea Viotti
luci Pasquale Mari
musiche Antonio Di Pofi
foto di scena Simone De Luca
produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro di Napoli − Teatro Nazionale
lingua italiano
durata 1h 50’
Napoli, Teatro San Ferdinando, 15 marzo 2022
in scena dal 15 al 20 marzo 2022

Pubblicato originariamente su Il Pickwick.

Viviana Calabria

“Solaris”. Le nostre colpe, il nostro passato

Confrontarsi con un testo importante della letteratura, da cui sono stati tratti due film, e rimaneggiarlo per il teatro non è cosa semplice. Stiamo parlando di Solaris, romanzo di Stanislaw Lem pubblicato nel 1961, conosciuto soprattutto per il film di Tarkovsky del 1972 e riproposto in un remake da Soderbergh nel 2002. Rifacimenti, reinterpretazioni, teorie hanno permesso all’opera di vivere oltre se stessa e creare materiale per continuare a riflettere. Non è necessaria una disamina sul genere fantascientifico cui appartiene il testo (serie A, serie B) perché è lui stesso a parlare e mostrare cosa c’è oltre l’elemento che lo rende di genere e fa storcere il naso a chi non ne è attratto. Però tenetelo a mente. La domanda che invece spesso ci si pone è: perché riproporre un testo di tanti anni fa?
La risposta del regista Andrea De Rosa potrebbe essere questa: “Ho letto Solaris durante la quarantena e mi aveva molto colpito questa idea che gli esseri umani potessero essere il virus e che il pianeta fosse costretto a reagire e a difendersi dalla loro presenza. Solaris è una vera e propria creatura, un pianeta vivente che attraverso il suo immenso oceano cerca di comunicare con gli uomini attraverso i loro desideri, che riesce a materializzare sotto forma di fantasmi”.

L’arte, un esempio è il campo letterario che ha visto la pubblicazione di saggi e romanzi sul tema o la riproposta di vecchi testi come La peste di Camus (tra i più venduti durante il lockdown), si è lasciata influenzare dall’emergenza sanitaria: giusto o sbagliato che sia l’importante è che non diventi l’unico punto di vista da cui osservare e analizzare il mondo. Ha portato di certo all’attenzione temi e problematiche dell’essere umano e del pianeta, ma verrebbe da domandarsi perché attendere una catastrofe per parlarne: l’arte non ha da sempre tentato di mettere in evidenza le contraddizioni del nostro mondo? Forse è questo, oltre al messaggio di Solaris, il vero motivo che dovrebbe essere (e che forse c’è) alla base della scelta del regista e di David Greig, autore del testo tradotto per l’Italia da Monica Capuani: il senso dell’arte. L’identificazione con l’oggi diventa solo una parte del tutto, un immediato punto di partenza che inevitabilmente è divenuto riferimento primario.
Ma lasciamo da parte le domande senza risposta e immergiamoci nello spettacolo.

L’ambientazione è riconoscibile appena si entra in sala: siamo al cospetto di una navicella spaziale costituita da una grossa pedana nera inclinata, un letto nero e in basso, a livello delle poltrone (le file sono state ridotte per avere lo spazio giusto e un po’ di distanza tra attori e pubblico) pochi elementi a indicare due stanze. Veniamo accolti da due interpreti in posizione, tanto da pensare lo spettacolo sia già iniziato. In quei minuti è possibile mettere a fuoco una televisione che manda programmi in bianco e nero che, sembra, una figura completamente coperta da una sorta di mantello che stia guardando, immobile. Dall’altro lato ad attirare l’attenzione è invece un passeggino, anch’esso nero.
Le luci si abbassano, silenzio.
“Chi sei tu?”. Sulla navicella spaziale che orbita intorno a Solaris arriva Kris Kelvin, psicologa e scienziata. La vediamo entrare da una botola che crea l’ingresso circolare della navicella. Si libera della tuta e si guarda intorno, incerta. Non la accoglie nessuno.
“Chi sei tu?”. La voce arriva da lontano: è Snow, uno dei tre scienziati della missione. È in evidente stato di confusione, non si lascia convincere dalla risposta di Kelvin, nome cognome professione. Al principio non comprendiamo il motivo di questa insistenza, di questa domanda-mondo la cui importanza si rivela poco a poco. Sartorius, l’altra scienziata, cammina per la sua stanza girando intorno al passeggino, a scatti, senza emozione alcuna. Ogni tanto cerca di calmare un bambino che piange, sshh. Gibarian, il terzo scienziato e maestro di Kris è morto: secondo Snow si è ucciso, Sartorius crede sia suicidio, aveva un cancro.
Cosa succede su quella navicella?
L’atmosfera di tensione si avverte grazie all’oscurità, a quel nero predominante che riceve luce solo quando gli attori parlano. A donare un po’ di luce è una specie di oblò della navicella, che funge anche da coperchio della botola, da cui è possibile vedere Solaris. Le immagini sono splendide, filmati tratti da materiali d’archivio, studiati perché possano ricordare le descrizioni del romanzo: la luce blu e la luce rossa che si alternano in queste orbite che il pianeta compie formando un otto, o il simbolo dell’infinito, contro ogni legge della fisica. Kris (che nel romanzo è un uomo) viene messa in guardia, cose strane accadono. Quando si addormenta una donna entra nella navicella e le si stende di fianco. È Ray, la donna che ha amato. È impossibile che sia lì eppure le somiglia così tanto. È un sogno? Sono reali, sembrano reali. Si tratta dei “visitatori”, questo il nome che hanno pensato per loro. Vengono da Solaris, quest’immensa distesa di mare, almeno a prima vista: all’inizio mandava loro degli oggetti, poi dei mostri.
Anche la bambina che piange viene da lì, l’ha trovata Gibarian. Ma non parlano.
“Lei parla”.
Ray parla. Ha con sé uno zaino con dei cd che fa ascoltare a Kris, sono alcune delle canzoni che hanno ascoltato
insieme. Ha anche un libro: Cime tempestose, il romanzo preferito di Kris. Provano a farle delle domande, carpire
informazioni. “Non lo so” ripete spesso. Non ricorda la sua vita, non conosce i titoli delle canzoni, il tipo di musica, dove si trova. Sa di essere australiana ma non conosce il nome della spiaggia più grande del suo paese. Accenna ad alcuni momenti vissuti con Kris, ma nulla di più. A tratti appare spaventata e confusa, in altri arrogante quando si rivolge a Snow.

Nel breve tempo dello spettacolo appaiono chiari due processi. Da una parte Ray alterna confusione a consapevolezza: tenta di uccidersi, di tornare al suo oceano e viene recuperata dagli scienziati. La seconda volta, invece chiede a Snow di farla sparire per sempre, distruggerla. Sa che il suo posto non è lì, non è umana, non è Ray.
Kris, invece, dalla consapevolezza rasenta quasi la follia: in due brevi monologhi scopriamo che Ray è stata la sua compagna fino a che non si sono separate, forse perché lei ha preferito la carriera. Un giorno un’amica le dice che è morta, risucchiata da un mulinello in mare, lei che era una nuotatrice provetta oltre che oceanografa. Non può essere, si è lasciata andare, è colpa sua. Ora che è lì non può lasciarla di nuovo, qualunque sia la sua natura. Chiede ai colleghi di rimanere, di non abbandonare la missione perché hanno stabilito finalmente un contatto con Solaris, possono studiare, scoprire, analizzare il pianeta. Ma i viveri scarseggiano e la situazione non è sostenibile.
Kris decide di rimanere. “Inventatevi quello che volete ma lasciatemi qua” perché il sogno è più bello della realtà.
Non siamo in grado di spiegare Solaris. Gibarian (Umberto Orsini) che appare solo in video, all’interno dell’occhiofinestra, attraverso dei messaggi lasciati proprio a Kris la definisce “una grande grossa palla di coscienza”. È un pianeta senziente, un bambino curioso che cerca il contatto con l’uomo inviando i visitatori. Come se leggesse nella loro mente riuscendo a creare qualcosa di simile. Ma perché lo fa e soprattutto ne è consapevole? Difficile dire se si tratti di una possibilità di redenzione o una condanna a rivivere sempre le proprie colpe. Molto bello, a proposito, quanto dice Sartorius: paragona il pianeta a un Dio fallibile, onnisciente e onnipresente ma limitato, che non si accorge delle conseguenze dei suoi atti. Da qui dunque l’incognita sul senso dei visitatori: la bimba nel passeggino che secondo Gibarian è un messaggio di speranza, diventa per Sartorius un incubo perché crede sia la figlia di sei anni che ha perso.
Snow riceve la visita della madre morta, la figura incappucciata e quasi mummificata sulla scena. Gibarian, invece, ha ricevuto come visitatore il cancro, causa della morte della madre.
È un confronto costante con il sé questo testo, è tanto altro dalla semplice fantascienza. Un confronto con le proprie colpe, il proprio passato e le conseguenze che le scelte hanno su noi stessi e sugli altri. Snow e Sartorius scelgono di andare avanti, Kris di soccombere, di lasciarsi travolgere perché lì fuori, per lei, non è vita. È chiaro che l’altro tema importante riguarda la volontà di conquista dell’uomo, e da qui il riferimento al virus. Il contatto con Solaris non è un semplice interesse scientifico ma vuole far raggiungere all’uomo una conoscenza superiore delle cose anche a discapito dell’equilibrio del pianeta; inoltre quest’intromissione può portare a un controllo e a un addomesticamento dell’Altro inteso come altro mondo, altro essere. Il discorso diventa quindi universale se a Solaris diamo di volta in volta una diversa connotazione.

La regia di De Rosa ha apportato alcuni cambiamenti, come la coppia Kelvin/Rey, formata da due donne: non è chiaro il motivo, forse per dare una spinta alle questioni queer odierne o per aumentare la parte femminile dell’equipaggio (già Greig lo aveva fatto col personaggio di Sartorius). Qualcuno ha ipotizzato che sia stata una scelta funzionale al testo perché le due donne diventano specchio l’una dell’altra, ma credo che il tema della colpa sia già perfetto per costringere qualcuno a analizzare se stesso. Un altro punto meno riuscito riguarda i passaggi degli attori da stanza a stanza: non ci sono porte che possano mostrare l’azione quindi alcune volte sembra stiano tutti insieme in un unico spazio, altre volte che siano invece separati ma con la possibilità di sentirsi, altre volte ancora sembrano isolati. Dal punto di vista recitativo non tutte le prove risultano allo stesso livello e lo spettacolo dà una sensazione di distacco e freddezza che l’atmosfera e la drammaticità non riescono a colmare: Snow (Werner Waas) ha un tono piatto e incolore in quasi tutte le scene che lo riguardano, la sua confusione si palesa soltanto all’inizio, persino durante l’interrogatorio a Ray non si trova urgenza e curiosità nella sua voce. Sartorius (Sandra Toffolatti) ha una voce molto calda e coinvolgente molto bella da ascoltare quando canta, ma a me la sua recitazione pare monocorde: anche quando rivela di sua figlia. Un plauso alle due attrici più giovani, Federica Rosellini e Giulia Mazzarino (in ordine Kris e Ray) che rendono bene i loro personaggi e la gamma di emozioni richieste; è soprattutto Ray a riuscire in questo passando dalla confusione all’arroganza alla paura in poche battute. L’adattamento di Greig in definitiva funziona perché riesce a dare un’idea del mondo inventato da Lem e dalle universali e attuali tematiche che ne hanno fatto un testo classico.
“Noi uomini partiamo per il cosmo pronti a tutto: alla solitudine, alla lotta, al martirio e alla morte. Anche se per pudore non lo proclamiamo a gran voce, spesso siamo convinti di essere persone straordinarie. In realtà quello che vogliamo non è conquistare il cosmo, ma estendere la Terra fino alle sue frontiere. Certi pianeti saranno desertici come il Sahara, altri glaciali come il polo o tropicali come la giungla brasiliana. Siamo nobili e umanitari, non vogliamo asservire altre razze ma solo trasmettere loro i nostri valori e, in cambio, impadronirci del loro patrimonio. Ci consideriamo i cavalieri del Santo Contatto, e questa è la menzogna numero due: la verità è che cerchiamo soltanto la gente. Non abbiamo bisogno di altri mondi, ma di specchi. Degli altri mondi non sappiamo che farcene, quello che abbiamo ci basta e ci avanza. (…). Quello che volevamo: il contatto con un’altra civiltà. E adesso che ce l’abbiamo, vediamo che si tratta solo della nostra mostruosa bruttezza, della nostra follia e della nostra vergogna ingrandite al microscopio!” (Stanislaw Lem, Solaris).


Solaris
di David Greig
nella traduzione di Monica Capuani
tratto dall’omonimo romanzo di Stanislaw Lem
regia Andrea De Rosa
con Federica Rosellini, Giulia Mazzarino, Sandra Toffolatti, Werner Waas
e con (in video) Umberto Orsini
filmati tratti dai materiali d’archivio di European Space Agency
concessi da Esa/Nasa
scene e costumi Simone Mannino
disegno luci Pasquale Mari
progetto sonoro G.U.P. Alcaro
video D-Wok
foto di scena Federico Pitto
produzione Teatro di Napoli-Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova
Napoli, Teatro Mercadante, 18 novembre 2021
in scena dal 17 al 28 novembre 2021

Pubblicato originariamente su Il Pickwick.

Viviana Calabria

Coro di voci per “Cuore di cane”

La lotta contro la censura, qualunque essa sia e sotto qualunque potere, è mio dovere, così come gli appelli alla libertà di stampa. Nella vasta arena della letteratura russa, in URSS io ero l’unico lupo. Mi hanno consigliato di tingermi il pelo. Consiglio assurdo. Sia tinto sia tosato, un lupo non assomiglierà mai a un barboncino.


Nella penombra del teatro, improvvisa irrompe una voce dal marcato accento russo. È Michail Afanas’evič Bulgakov, l’autore di grandi opere come Il Maestro e Margherita e Cuore di cane. Grande autore inviso al regime di Stalin, messo a tacere perché portatore di verità sulle contraddizioni e la corruzione della società, arriverà a desiderare di essere esiliato dal suo Paese perché “uno scrittore che tace non è un vero scrittore”.

Il sipario si apre e sulla scena appare una donna immersa nel nero, con una luce azzurra che arriva dal fondo e la neve che cade dall’alto. Porta una gonna lunga, degli stivali e una camicia, tutto di un diversa sfumatura di bianco. I capelli adornano una maschera, anch’essa bianca, che lascia scoperta solo la bocca. Dal microfono si inizia a udire un lamento, parole, sconnesse, ululati mentre di lato sta e suona l’amplificazione sonora di Tommaso Qzerty Danisi, che sarà perfetto nel ruolo perché riuscirà a dare ritmo alla rappresentazione, che altrimenti ne risentirebbe.
Ben presto appare chiaro che sul palco, a interpretare i personaggi, c’è la sola Licia Lanera. La sua figura e la sua voce modulata in base ai personaggi che fa parlare, sono protagoniste assolute della scena, in un monologo che diventa un coro. Una prova d’attrice di grande livello, che però catalizza l’attenzione su di lei adombrando il testo. Ed è qui che diventa chiaro che il bianco dell’abbigliamento e la maschera stiano a indicare neutralità: l’attrice si fa pura perché possa essere chiunque desideri, senza perdere però le sue caratteristiche femminili.
La rappresentazione si svolge in un piccolo spazio di palco, dinanzi al tavolo con tutta la strumentazione sonora, o su un piccolo rialzo dove sono posizionate una poltrona e una lampada.

La vicenda, grottesca e favolistica, racconta di Filipp Filippovič, un ricco scienziato che trapianta organi animali nei propri pazienti per donare loro l’eterna giovinezza, che un giorno salva un cane in fin di vita tenendolo con sé, dandogli il nome di Pallino e decidendo di utilizzarlo come cavia: impianta nel suo corpo ipofisi, una “camera chiusa che determina un dato tipo”, e gonadi di un uomo di venticinque anni che è stato assassinato poco tempo prima. Contrariamente alle aspettative il cane non solo sopravviverà ma si trasformerà in un uomo a tutti gli effetti, trasformazione che verrà narrata dall’attrice con l’ausilio di un quaderno messo sulla scena, con la copertina rossa e Cuore di cane ben in vista, “che però rincorre ancora i gatti”.
Il tema principale di Bulgakov − una forte critica al governo e alla sua volontà di cambiare radicalmente la società − non sempre riesce a imprimersi con forza in questa rivisitazione. Ben riuscite le caratterizzazioni dei personaggi “di passaggio”: un anziano cliente del dottore, dal riconoscibile accento milanese e che desidera ringiovanire per poter adescare giovani fanciulle, viene reso anche viscido grazie a un modo particolare di risucchiare mentre parla; il capo del palazzone in cui vive Filippovič è identificabile nel suo lessico romanesco e lo stesso scienziato, con il suo dire educato e pacato, rientra perfettamente nell’immaginario borghese così come rientra nella figura del ricco e privilegiato che crede di potere tutto. Perfino creare un uomo perfetto. Di minore potenza risulta invece la figura di Pallino, che dovrebbe incarnare tutti i vizi dell’uomo russo proletario, caratterizzato da un linguaggio ricco di imprecazioni, ma le cui disavventure assurde e grottesche vengono qui messe da parte.
Con Licia Lanera è la disumanizzazione dell’uomo a farla da padrone e, dunque, la figura dello scienziato. I pazienti sono una conseguenza di un mondo votato all’apparenza, alla fugacità non della vita ma della bellezza esteriore e dei piaceri più bassi.
L’uomo ricco e borghese sa di andare contro la morale e il buon senso, sa di operare una forzatura della natura stessa soltanto per dimostrare superiorità intellettiva, manifestando un potere assoluto sulla vita stessa. Ben presto giungerà in tutta la sua brutalità la consapevolezza dello sbaglio compiuto e la comprensione che la smania di andare oltre il possibile e il lecito non ha portato all’umanizzazione del cane. “Non ce la faccio più” si ripeterà spesso Filippovič. E da qui la scelta più giusta: riportare Pallino alle sue sembianze iniziali, farlo tornare un cane con un cuore di cane. Ormai “non ha più un cuore di cane, ma un cuore di umano, il più lurido che esista in natura”.
Buio.
Luce azzurra. Ombra di un uomo che ulula.

Cuore di cane
di Michail Bulgakov
adattamento e regia Licia Lanera
con Licia Lanera, Tommaso Qzerty Danisi
sound design Tommaso Qzerty Danisi
luci Vincent Longuemare
costumi Sara Cantarone
maschera Sarah Vecchietti
assistente alla regia Annalisa Calice
tecnici di palco Cristian Allegrini, Martin Palma
organizzazione Antonella Dipierro
foto di scena Manuela Giusto
produzione Compagnia Licia Lanera / TPE – Teatro Piemonte Europa
con il sostegno di MiBACT e Regione Puglia e dell’Assessorato all’Industria Turistica e Culturale, Gestione e
Valorizzazione dei Beni Culturali
lingua italiano
durata 1h 15′
Napoli, Piccolo Bellini, 30 ottobre 2018
in scena dal 30 ottobre al 4 novembre 2018

Pubblicato originariamente su Il Pickwick.

Viviana Calabria

La Roma di mezzo | La città dei vivi

Il primo pensiero davanti alla pagina bianca di questo articolo è stato: devo parlare di Nicola Lagioia e del libro in sé o del caso Varani? Dove finisce l’uno e inizia l’altro?

Per come la si metta, la storia ci porta indietro di qualche anno, precisamente nel 2016. Siamo nella biglietteria del Colosseo quando del sangue gocciola sulla scrivania di una delle addette: si scoprirà che proviene da un topo. L’accidente è vero, le cronache lo riportano, anche se l’incipit sembra preludere a un classico thriller difatti più di una volta mi sono ritrovata a leggere le vicende con un certo distacco, a dirmi “lo sapevo”, quasi una gara a chi indovina l’assassino. Non so se sia un bene o un male, se la colpa sia mia o dipenda dallo scrittore. Tornando all’inizio, Lagioia col suo incipit compie una scelta furba perché permette di catturare l’attenzione. Furberia o meno, è innegabile che l’intento dell’autore sia anche quello di presentarci il contesto, che non è tanto sfondo quanto personaggio vero è proprio: Roma. C’è la Roma di su, il cielo sugli archi di travertino, le colonne vecchie di duemila anni, la basilica di Massenzio, il Colosseo, e la Roma di giù, i topi, l’immondizia, le file, il traffico, i disservizi. E poi ci sono i gabbiani che sono sia su che giù, che fanno ombra sulla città e non sono un buon presagio. La Roma dei vivi e quella dei morti. E poi c’è la Roma di Mezzo, quella di una famosa inchiesta che coinvolgeva privati e istituzioni: «È la teoria del Mondo di Mezzo, cumpa’, ci stanno i vivi sopra e i morti sotto. Noi siamo nel mezzo perché c’è un mondo, un Mondo di Mezzo, in cui tutti si incontrano tra loro. Nel Mondo di Mezzo tutti si incontrano con tutti. Ci trovi delle persone del sovramondo perché magari hanno interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia dei favori che non può fare nessun altro». A me sembra che questa storia sia proprio lì, in mezzo.

Roma è la città in cui può succedere di tutto e questo omicidio così come è poteva accadere solo qui, dice Lagioia. Ha già visto la fine del mondo questa città e nulla può davvero spiazzare chi la vive. In questo «delirio urbano» sembra inevitabile soccombere a un delirio mentale. Se nella prima parte, la più riuscita a mio parere, ci si concentra molto sulla città – a volte con troppa insistenza concentrando una serie lunga di sensazioni, di immagini del degrado che bene ormai conosciamo –, sul rendere il male qualcosa di concreto, di palpabile, e si presenta il caso Varani, dalla seconda parte si scava più in profondità nei fatti.

Ma quali sono, questi fatti? Tra il 4 e il 5 marzo Luca Varani viene ucciso in un appartamento al decimo piano di Via Igino Giordani, quartiere Collatino. Ad ucciderlo sono Manuel Foffo e Marco Prato. Attraverso interviste ai mandanti, alle famiglie, agli amici e a quanti vicini al caso, Lagioia tenta di ricostruire cosa è successo quella notte ma soprattutto i motivi di quel gesto così estremo e feroce. Che ricerchiamo in fondo tutti, per spiegarci i nostri comportamenti. Veniamo a sapere che l’autore deve scrivere un reportage per un giornale; inizialmente titubante, alla fine accetta il lavoro per un motivo personale, comprensibile ma forse debole. Ma chi sono io per giudicarlo.

Da qui in poi il racconto sfocia troppo spesso in un tono filosofeggiante, con una serie di teorie personali sul male, sullo stesso omicidio, sulla colpa. C’è questo motivo di Roma che torna, fuori luogo adesso, perché ci racconta dello stesso autore e della moglie che si allontanano da Roma, da tutte le contraddizioni e il dolore di quella città ma allo stesso tempo vogliono tornarci, come una calamita. È un qualcosa che stufa perché diventa ancora troppo.
Senza dilungarmi sul resto della storia vorrei porre all’attenzione alcuni spunti di riflessione emersi dalla lettura. Il primo, che ritengo importante, è che nonostante si parli di cronaca nera, Lagioia non offre particolari morbosi. O meglio, non racconta particolari della vicenda mettendovi l’accento come spesso fanno i giornalisti. È indubbio che vengano scandagliate le vite di Luca, Marco e Manuel, il loro passato, ma non c’è ombra di giudizio, di insistenza. Ciò che viene fuori dalle indagini lo troviamo su carta. Quello che si viene a sapere: droga, alcool, omosessualità, relazioni. Sono ricostruzioni che fanno scemare di molto quella palpabilità dell’oscuro che aveva tentato inizialmente di creare l’autore, e la freddezza del racconto non fa empatizzare con la vittima. Con i carnefici, neanche a dirlo. Ma c’è un’altra riflessione interessante, che mai esce dai racconti di cronaca: «Tutti temiamo di vestire i panni della vittima […] È sempre: ti prego, fa’ che non succeda a me. E mai: ti prego, fa’ che non sia io a farlo.»

Parlare di mostro e atti mostruosi è un modo per creare distanze enormi tra noi e loro sul piano emotivo. Ci permette di credere che non potremmo mai fare una cosa del genere e quindi questo porta ad avere paura di subire ma non di agire. In realtà, le zone d’ombra sono in ognuno di noi. Questo ci porta anche ad un’altra riflessione, ovvero i motivi. Da appassionata di psichiatria, di mente, di criminologia sono affascinata proprio dal passato e da cosa succede alle persone per portarle a compiere crimini. Ma serve davvero? O meglio, si può davvero riuscire a individuare quel qualcosa che scatta e si trasforma in orrore? Quelli ricercati in questo libro sono alcuni motivi che effettivamente hanno portato persone incensurate (perché definirle normali mi sembra sbagliato, così come i giornalisti che definiscono onesti lavoratori gli uomini che si macchiano di femminicidio) a uccidere, ma non sono abbastanza e mai lo saranno. Definire romanzo-verità questo racconto è un errore. Comprendere è impossibile.

Articolo scritto per il blog di GoodBook.it.

Viviana Calabria

Nicola Lagioia
La città dei vivi
2020
Einaudi Supercoralli
pp. 472
€ 22,00
ISBN 9788806233334