Il primo pensiero davanti alla pagina bianca di questo articolo è stato: devo parlare di Nicola Lagioia e del libro in sé o del caso Varani? Dove finisce l’uno e inizia l’altro?
Per come la si metta, la storia ci porta indietro di qualche anno, precisamente nel 2016. Siamo nella biglietteria del Colosseo quando del sangue gocciola sulla scrivania di una delle addette: si scoprirà che proviene da un topo. L’accidente è vero, le cronache lo riportano, anche se l’incipit sembra preludere a un classico thriller difatti più di una volta mi sono ritrovata a leggere le vicende con un certo distacco, a dirmi “lo sapevo”, quasi una gara a chi indovina l’assassino. Non so se sia un bene o un male, se la colpa sia mia o dipenda dallo scrittore. Tornando all’inizio, Lagioia col suo incipit compie una scelta furba perché permette di catturare l’attenzione. Furberia o meno, è innegabile che l’intento dell’autore sia anche quello di presentarci il contesto, che non è tanto sfondo quanto personaggio vero è proprio: Roma. C’è la Roma di su, il cielo sugli archi di travertino, le colonne vecchie di duemila anni, la basilica di Massenzio, il Colosseo, e la Roma di giù, i topi, l’immondizia, le file, il traffico, i disservizi. E poi ci sono i gabbiani che sono sia su che giù, che fanno ombra sulla città e non sono un buon presagio. La Roma dei vivi e quella dei morti. E poi c’è la Roma di Mezzo, quella di una famosa inchiesta che coinvolgeva privati e istituzioni: «È la teoria del Mondo di Mezzo, cumpa’, ci stanno i vivi sopra e i morti sotto. Noi siamo nel mezzo perché c’è un mondo, un Mondo di Mezzo, in cui tutti si incontrano tra loro. Nel Mondo di Mezzo tutti si incontrano con tutti. Ci trovi delle persone del sovramondo perché magari hanno interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia dei favori che non può fare nessun altro». A me sembra che questa storia sia proprio lì, in mezzo.
Roma è la città in cui può succedere di tutto e questo omicidio così come è poteva accadere solo qui, dice Lagioia. Ha già visto la fine del mondo questa città e nulla può davvero spiazzare chi la vive. In questo «delirio urbano» sembra inevitabile soccombere a un delirio mentale. Se nella prima parte, la più riuscita a mio parere, ci si concentra molto sulla città – a volte con troppa insistenza concentrando una serie lunga di sensazioni, di immagini del degrado che bene ormai conosciamo –, sul rendere il male qualcosa di concreto, di palpabile, e si presenta il caso Varani, dalla seconda parte si scava più in profondità nei fatti.
Ma quali sono, questi fatti? Tra il 4 e il 5 marzo Luca Varani viene ucciso in un appartamento al decimo piano di Via Igino Giordani, quartiere Collatino. Ad ucciderlo sono Manuel Foffo e Marco Prato. Attraverso interviste ai mandanti, alle famiglie, agli amici e a quanti vicini al caso, Lagioia tenta di ricostruire cosa è successo quella notte ma soprattutto i motivi di quel gesto così estremo e feroce. Che ricerchiamo in fondo tutti, per spiegarci i nostri comportamenti. Veniamo a sapere che l’autore deve scrivere un reportage per un giornale; inizialmente titubante, alla fine accetta il lavoro per un motivo personale, comprensibile ma forse debole. Ma chi sono io per giudicarlo.
Da qui in poi il racconto sfocia troppo spesso in un tono filosofeggiante, con una serie di teorie personali sul male, sullo stesso omicidio, sulla colpa. C’è questo motivo di Roma che torna, fuori luogo adesso, perché ci racconta dello stesso autore e della moglie che si allontanano da Roma, da tutte le contraddizioni e il dolore di quella città ma allo stesso tempo vogliono tornarci, come una calamita. È un qualcosa che stufa perché diventa ancora troppo. Senza dilungarmi sul resto della storia vorrei porre all’attenzione alcuni spunti di riflessione emersi dalla lettura. Il primo, che ritengo importante, è che nonostante si parli di cronaca nera, Lagioia non offre particolari morbosi. O meglio, non racconta particolari della vicenda mettendovi l’accento come spesso fanno i giornalisti. È indubbio che vengano scandagliate le vite di Luca, Marco e Manuel, il loro passato, ma non c’è ombra di giudizio, di insistenza. Ciò che viene fuori dalle indagini lo troviamo su carta. Quello che si viene a sapere: droga, alcool, omosessualità, relazioni. Sono ricostruzioni che fanno scemare di molto quella palpabilità dell’oscuro che aveva tentato inizialmente di creare l’autore, e la freddezza del racconto non fa empatizzare con la vittima. Con i carnefici, neanche a dirlo. Ma c’è un’altra riflessione interessante, che mai esce dai racconti di cronaca: «Tutti temiamo di vestire i panni della vittima […] È sempre: ti prego, fa’ che non succeda a me. E mai: ti prego, fa’ che non sia io a farlo.»
Parlare di mostro e atti mostruosi è un modo per creare distanze enormi tra noi e loro sul piano emotivo. Ci permette di credere che non potremmo mai fare una cosa del genere e quindi questo porta ad avere paura di subire ma non di agire. In realtà, le zone d’ombra sono in ognuno di noi. Questo ci porta anche ad un’altra riflessione, ovvero i motivi. Da appassionata di psichiatria, di mente, di criminologia sono affascinata proprio dal passato e da cosa succede alle persone per portarle a compiere crimini. Ma serve davvero? O meglio, si può davvero riuscire a individuare quel qualcosa che scatta e si trasforma in orrore? Quelli ricercati in questo libro sono alcuni motivi che effettivamente hanno portato persone incensurate (perché definirle normali mi sembra sbagliato, così come i giornalisti che definiscono onesti lavoratori gli uomini che si macchiano di femminicidio) a uccidere, ma non sono abbastanza e mai lo saranno. Definire romanzo-verità questo racconto è un errore. Comprendere è impossibile.
Articolo scritto per il blog di GoodBook.it.
Viviana Calabria
Nicola Lagioia La città dei vivi 2020 Einaudi Supercoralli pp. 472 € 22,00 ISBN 9788806233334
Lo dico subito: Self-made: la vita di Madam C. J. Walker non è un prodotto qualitativamente alto, non ne ha la pretesa, ma ha il pregio di raccontare una storia, vera, di un personaggio che ha costruito da sé la sua fortuna e che ha speso il suo tempo a combattere anche per gli altri. E lo ha fatto da donna.
La miniserie di quattro puntate si basa sulla biografia On Her Own Ground di A’Lelia Bundles, pro-pro nipote della protagonista, ed è grazie a lei se il suo esempio di donna rivoluzionaria è giunto sino a noi.
Quanto segue è frutto di lettura e visione, in un intreccio di realtà e (poca) finzione. “I capelli sono potere”. Sarah Breedlove nasce il 23 dicembre 1867 a Delta, in Louisiana. Quinta di sei figli, i genitori e i fratelli lavoravano come schiavi in una piantagione, nasce libera, cinque anni dopo il Proclama di emancipazione di Abramo Lincoln (il primo ordine esecutivo è del 1862) che decreta di fatto la liberazione degli schiavi dai territori degli Stati Confederati d’America. Lo schiavismo diventa fuorilegge il 18 dicembre 1865. Sarah vive in una baracca di legno con la famiglia facendo lavori umili fino ai sette anni. La madre muore nel 1872 forse per colera e il padre non molto dopo. Rimasta orfana, viene accolta dalla sorella maggiore e dal marito, il quale la maltratta. Si sposa all’età di quattordici anni per fuggire da una situazione da incubo e partorisce la sua unica figlia. A venti anni rimane vedova e si trasferisce a St. Louis (1882). Qui inizia a lavorare come lavandaia e incontra John Davis e rimane con lui fino al 1903. Il resto, in parte, si ritrova nella serie Netflix anche se con uno sfasamento di date. Siamo nel 1908 a St. Louis. Sarah Breedlove (Octavia Spencer) è una lavandaia “venuta al mondo per lottare”. Lava e strofina tutti i giorni fino a sanguinare, per pochi spiccioli. Il marito, un uomo violento amante dell’alcool, uscito dal carcere la abbandona. Sarah non è una bellezza, ma il suo aspetto è peggiorato a causa della perdita di capelli: è ormai quasi calva a causa della situazione igienica precaria, sembra “un cane rognoso” così si nasconde sotto foulard colorati. Alla sua porta bussa Addie Monroe (Carmen Ejogo) con la sua crema magica che rinfoltisce i capelli ed è un toccasana per altri problemi legati al cuoio capelluto. La crema fa davvero miracoli e i capelli di Sarah ricrescono. Riacquistata la fiducia in se stessa, libera di sfoggiare la sua chioma, Sarah si propone a Addie come venditrice del suo prodotto perché perfetto esempio delle proprietà della crema. Essendo poi nera, ha certamente più appeal sulle altre donne nere cui il prodotto è destinato, non essendo adatto a ogni tipo di capello. Addie non accetta e Sarah prende di nascosto alcuni vasetti riuscendo a venderli tutti grazie alla sua storia, diremmo oggi un ottimo esempio di storytelling che fa leva su un disagio profondo della comunità a cui si rivolge e offre un aiuto valido. Conosce i bisogni e offre appagamento. Tornata da Addie con i soldi delle vendite, la reazione della donna è dura e offensiva: “Perfino con il vestito buono della domenica sembri appena uscita da una piantagione”. Nella realtà Sarah viene assunta come agente di vendita da Annie Malone mentre la serie se ne distacca per creare dramma, mostrare con più forza il disprezzo nei confronti dei neri. Nel frattempo Sarah incontra un altro uomo, J. C. Walker (Blair Underwood), un pubblicitario che diventa suo terzo marito stando alla biografia, e decide di creare una sua crema infoltente e vendere per conto proprio. Si trasferisce a Indianapolis, nella realtà si trasferisce qui dopo aver vissuto in altre città, con il compagno, la figlia Lelia (Tiffany Haddish), il nuovissimo marito John e il padre di C. J. (Garrett Morris) per iniziare la produzione della crema in casa. L’inaugurazione del salone casalingo che non vede la partecipazione di alcuno non la scalfisce. Torna in strada come la prima volta per raccontare la sua storia e questa volta veniamo a conoscenza di qualche elemento in più sulla sua infanzia. Sarah comprende bene che l’aspetto fisico ha grande importanza per la rispettabilità di una persona in società, per riuscire ad accedere a lavori e servizi altrimenti preclusi, e che bisogna fare comunità, aiutarsi, elevare una razza perché “se lei è bella lo siamo tutte noi”.
L’impresa si rialza ma il rapporto tra Sarah e C. J. comincia a incrinarsi: lei sogna in grande, è risoluta, autoritaria. C. J. si sente ferito nella sua virilità, viene meno il ruolo dell’uomo che mantiene la famiglia; come gli dirà il padre “un uomo che si rispetti deve essere autonomo, specie se è nero. Non devi prendere mai i soldi da dove prendi lo zucchero”. In città si trasferisce anche Addie Monroe e apre il suo salone dando inizio a una nuova contesa tra le due donne che viene resa, nella serie, attraverso brevi scene che interrompono la narrazione in cui le due si affrontano su un ring. Un elemento superfluo che sembra più voler movimentare un racconto per forza di cose lineare e senza colpi di scena e stravolgimenti che però banalizza un discorso che avrebbe meritato più spazio. Con l’incendio della parte della casa utilizzata come fabbrica lo sconforto cresce ma Sarah non si demoralizza. Cerca investitori per acquistare un locale più ampio ma incontra non poche difficoltà. Cerca dunque di prendere contatti con Booker T. Washington e parlare alla convention degli imprenditori neri. La mancanza di contesto storico e di approfondimento mi spinge a un breve excursus su Booker Taliaferro Washington. Nasce schiavo da madre nera e padre bianco, che non si è preso mai cura di lui. Grazie agli studi diventa presidente del Tuskegee Institute e importante leader per la comunità afroamericana, di lui si diceva fosse un americano alla Casa Bianca. Si è battuto per la sua comunità, per l’ingresso nella società dei neri attraverso il lavoro. Famoso il suo Compromesso di Atlanta di cui la serie riporta un piccolo stralcio ma forse quello maggiormente significativo. Suo soprannome è “l’Accomodatore” perché ha sempre cercato di non arrivare allo scontro con i bianchi. Salta all’occhio l’utilizzo del termine separazione quando bisognerebbe parlare di unione: l’accordo prevede per i neri la segregazione e quindi la separazione sociale e urbana tra bianchi e neri, la rinuncia al diritto di voto e l’istruzione di base gratuita di tipo professionale e industriale. Tornando alla serie, John, il marito di Lelia, incontra in città Addie che lo invita nel suo salone e lo spinge rivelarle i progetti di Sarah in cambio di soldi: lui, rancoroso nei confronti della famiglia che lo ha accolto e che lo reputa un buono a nulla, cede alla richiesta di Addie. C. J. riesce a ottenere tre biglietti per la convention di Booker e Sarah, unica donna, partecipa ma non riesce a fare il suo intervento in favore del suo progetto e spinge il marito a invitare Booker a cena ma nel pieno della festa in suo onore Sarah capisce che qualcosa non è andato nel verso giusto. Durante la seconda convention Sarah sale sul palco e tiene il suo discorso grazie al sostegno delle altre donne, mogli degli imprenditori presenti: anche in questo caso la forza di Madam sta nella capacità di colpire al cuore del problema, quello dell’identità, dovuto anche a una situazione che vive in prima persona. Le donne vengono relegate in cucina perché giudicate inferiori e adatte solo alla cura della casa e dei figli e come accompagnatrici al braccio in occasioni pubbliche. Sia Booker che gli uomini neri vogliono alzare il proprio rango e farsi riconoscere in quanto uomini con gli stessi diritti e le stesse capacità, ma la condizione delle donne non fa parte della loro rivoluzione. Ogni tentativo di far valere la propria dignità veniva messo a tacere e considerato uno sfogo, quasi un’isteria. Nere o bianche, le donne erano quasi orpelli da mostrare; le nere qualche gradino sotto. Questa visione delle cose acuisce la distanza tra Sarah e C. J. in quanto “è l’uomo che decide” ma Sarah non si piega. La distanza e le discussioni portano C. J. al tradimento. Grazie all’aiuto economico delle altre donne della comunità apre la sua fabbrica e dà lavoro a tantissime agenti. Ma ancora non le basta: vuole aprire saloni in tutto il paese e dare la possibilità a tantissime donne di essere autonome e di guadagnare uno stipendio dignitoso. Per lanciare la nuova linea, C. J. inventa la “ragazza Walker” ovvero la ragazza Gibson nera: si tratta del primo standard di bellezza degli Stati Uniti ma non incarna l’ideale di Madam. Tutte sono belle per la loro unicità e non devono somigliare a nessuno standard, specialmente se questo richiama gli ideali dei bianchi. Se nel primo episodio troviamo le scene sul ring, negli altri ritroviamo il tema del sogno: per esempio quando Madam porta gli investitori a visitare il posto che vorrebbe acquistare e trasformare in fabbrica, mentre spiega come desidera il progetto si immagina ragazze in divisa che ballano tra i clienti o ancora la ragazza Walker che appare quasi come un fantasma. Questa idea ho pensato potesse provenire da un aneddoto che ho ritrovato nella sua biografia: nel raccontare la sua storia per vendere la crema, Sarah era solita dire di aver sognato un uomo nero che le indicava gli ingredienti da utilizzare per creare il prodotto giusto. Che sia un omaggio a questa particolarità della storia − ma ne dubito − o meno sicuramente è un goffo tentativo di rallegrare ancora una volta la narrazione che non eccelle neanche nella recitazione e nulla può la stessa Octavia Spencer, poco espressiva. Nuove difficoltà, intrighi e il divorzio non fermano l’ambizione di Madam che si prepara ad aprire nuove sedi. La figlia avrà il suo salone ad Harlem dopo aver lasciato il marito e adotterà una giovane donna a cui è morto da poco il padre, per aiutare la madre e i suoi numerosi figli. Sarah, malata, vuole organizzare una convention con tutte le agenti di vendita e lo fa nella sua nuova villa, di fianco a quella di Rockefeller.
Ne consiglio la visione se interessati a scoprire la storia di Madam C. J. Walker, non avendo a disposizione la biografia tradotta, e passare qualche ora con leggerezza. Spunti di riflessione potrebbero essercene ma è tutto trattato con superficialità e spesso calcando la mano per suscitare empatia, per esempio nel raccontare la relazione della figlia con una ragazza. All’inizio Sarah non approva organizzando a Lilia incontri con uomini facoltosi, ma dopo la notizia della sua malattia comprende l’importanza della libertà di scelta. Nella realtà la figlia avrà altri matrimoni con uomini e nello stesso tempo relazioni con delle donne, senza che questo si rilevi d’intralcio al rapporto o alla carriera della madre. Ciò che non vien fuori dalla narrazione rendendola quindi manchevole e molto centrata sui soldi e sul rimarcare come la Breedlove sia stata la prima donna milionaria ad aver costruito la sua fortuna senza aiuti, è la sua filantropia. Oltre a essere membro e patrocinatrice di molte associazioni, aiutò economicamente tanti giovani neri del sud sostenendone la formazione. Fu a fianco di Booker e del Tuskegee Institute. Non smise mai di aiutare e lottare, fino alla morte avvenuta a cinquantuno anni. Una donna che si è fatta da sola e che ha aiutato tante a credere in se stesse, a spingere per un riconoscimento identitario dei neri e in particolare delle donne. Una femminista, anche.
Viviana Calabria
Self-made: la vita di Madam C. J. Walker regia Kasi Lemmons, DeMane Davis soggetto A’Lelia Bundles sceneggiatura Nicole Jefferson Asher, A’Lelia Bundles con Octavia Spencer, Kevin Carrol, Carmen Ejogo, Tiffany Haddish, Garrett Morris, Blair Underwood, Sidney Morton, Mark Taylor, J. Alphonse Nicholson, Bill Bellamy, Zahra Bentham, Mouna Traoré fotografia Kira Kelly montaggio Kathryn Himoff musiche Larry Goldings produttori DeMane Davis, Eric Oberland, lena Cordina casa di produzione SpringHill Entertainment, Orit Entertainment, Wonder Street, Warner Bros. Television distribuzione Netflix paese Stati Uniti d’America lingua originale inglese colore a colori anno 2020 durata 4 puntate da 45 min.