Coro di voci per “Cuore di cane”

La lotta contro la censura, qualunque essa sia e sotto qualunque potere, è mio dovere, così come gli appelli alla libertà di stampa. Nella vasta arena della letteratura russa, in URSS io ero l’unico lupo. Mi hanno consigliato di tingermi il pelo. Consiglio assurdo. Sia tinto sia tosato, un lupo non assomiglierà mai a un barboncino.


Nella penombra del teatro, improvvisa irrompe una voce dal marcato accento russo. È Michail Afanas’evič Bulgakov, l’autore di grandi opere come Il Maestro e Margherita e Cuore di cane. Grande autore inviso al regime di Stalin, messo a tacere perché portatore di verità sulle contraddizioni e la corruzione della società, arriverà a desiderare di essere esiliato dal suo Paese perché “uno scrittore che tace non è un vero scrittore”.

Il sipario si apre e sulla scena appare una donna immersa nel nero, con una luce azzurra che arriva dal fondo e la neve che cade dall’alto. Porta una gonna lunga, degli stivali e una camicia, tutto di un diversa sfumatura di bianco. I capelli adornano una maschera, anch’essa bianca, che lascia scoperta solo la bocca. Dal microfono si inizia a udire un lamento, parole, sconnesse, ululati mentre di lato sta e suona l’amplificazione sonora di Tommaso Qzerty Danisi, che sarà perfetto nel ruolo perché riuscirà a dare ritmo alla rappresentazione, che altrimenti ne risentirebbe.
Ben presto appare chiaro che sul palco, a interpretare i personaggi, c’è la sola Licia Lanera. La sua figura e la sua voce modulata in base ai personaggi che fa parlare, sono protagoniste assolute della scena, in un monologo che diventa un coro. Una prova d’attrice di grande livello, che però catalizza l’attenzione su di lei adombrando il testo. Ed è qui che diventa chiaro che il bianco dell’abbigliamento e la maschera stiano a indicare neutralità: l’attrice si fa pura perché possa essere chiunque desideri, senza perdere però le sue caratteristiche femminili.
La rappresentazione si svolge in un piccolo spazio di palco, dinanzi al tavolo con tutta la strumentazione sonora, o su un piccolo rialzo dove sono posizionate una poltrona e una lampada.

La vicenda, grottesca e favolistica, racconta di Filipp Filippovič, un ricco scienziato che trapianta organi animali nei propri pazienti per donare loro l’eterna giovinezza, che un giorno salva un cane in fin di vita tenendolo con sé, dandogli il nome di Pallino e decidendo di utilizzarlo come cavia: impianta nel suo corpo ipofisi, una “camera chiusa che determina un dato tipo”, e gonadi di un uomo di venticinque anni che è stato assassinato poco tempo prima. Contrariamente alle aspettative il cane non solo sopravviverà ma si trasformerà in un uomo a tutti gli effetti, trasformazione che verrà narrata dall’attrice con l’ausilio di un quaderno messo sulla scena, con la copertina rossa e Cuore di cane ben in vista, “che però rincorre ancora i gatti”.
Il tema principale di Bulgakov − una forte critica al governo e alla sua volontà di cambiare radicalmente la società − non sempre riesce a imprimersi con forza in questa rivisitazione. Ben riuscite le caratterizzazioni dei personaggi “di passaggio”: un anziano cliente del dottore, dal riconoscibile accento milanese e che desidera ringiovanire per poter adescare giovani fanciulle, viene reso anche viscido grazie a un modo particolare di risucchiare mentre parla; il capo del palazzone in cui vive Filippovič è identificabile nel suo lessico romanesco e lo stesso scienziato, con il suo dire educato e pacato, rientra perfettamente nell’immaginario borghese così come rientra nella figura del ricco e privilegiato che crede di potere tutto. Perfino creare un uomo perfetto. Di minore potenza risulta invece la figura di Pallino, che dovrebbe incarnare tutti i vizi dell’uomo russo proletario, caratterizzato da un linguaggio ricco di imprecazioni, ma le cui disavventure assurde e grottesche vengono qui messe da parte.
Con Licia Lanera è la disumanizzazione dell’uomo a farla da padrone e, dunque, la figura dello scienziato. I pazienti sono una conseguenza di un mondo votato all’apparenza, alla fugacità non della vita ma della bellezza esteriore e dei piaceri più bassi.
L’uomo ricco e borghese sa di andare contro la morale e il buon senso, sa di operare una forzatura della natura stessa soltanto per dimostrare superiorità intellettiva, manifestando un potere assoluto sulla vita stessa. Ben presto giungerà in tutta la sua brutalità la consapevolezza dello sbaglio compiuto e la comprensione che la smania di andare oltre il possibile e il lecito non ha portato all’umanizzazione del cane. “Non ce la faccio più” si ripeterà spesso Filippovič. E da qui la scelta più giusta: riportare Pallino alle sue sembianze iniziali, farlo tornare un cane con un cuore di cane. Ormai “non ha più un cuore di cane, ma un cuore di umano, il più lurido che esista in natura”.
Buio.
Luce azzurra. Ombra di un uomo che ulula.

Cuore di cane
di Michail Bulgakov
adattamento e regia Licia Lanera
con Licia Lanera, Tommaso Qzerty Danisi
sound design Tommaso Qzerty Danisi
luci Vincent Longuemare
costumi Sara Cantarone
maschera Sarah Vecchietti
assistente alla regia Annalisa Calice
tecnici di palco Cristian Allegrini, Martin Palma
organizzazione Antonella Dipierro
foto di scena Manuela Giusto
produzione Compagnia Licia Lanera / TPE – Teatro Piemonte Europa
con il sostegno di MiBACT e Regione Puglia e dell’Assessorato all’Industria Turistica e Culturale, Gestione e
Valorizzazione dei Beni Culturali
lingua italiano
durata 1h 15′
Napoli, Piccolo Bellini, 30 ottobre 2018
in scena dal 30 ottobre al 4 novembre 2018

Pubblicato originariamente su Il Pickwick.

Viviana Calabria

Sul tradurre | La dama o la tigre?

Frank R. Stockton
La dama o la tigre?
traduzione italiana a cura di Yuri Sassetti

In tempi antichissimi, viveva un re semibarbaro, le cui idee, sebbene in qualche modo affinate e perfezionate dallo spirito moderno dei lontani parenti latini, erano ancora pompose, esuberanti e sfrontate, proprio come la sua metà barbarica. Era un uomo dall’estro vivace e, per di più, dall’influenza talmente irresistibile che, al solo volerlo, trasformava le sue più variegate fantasie in realtà. Tendeva ad ascoltarsi molto; quando lui e lui stesso erano d’accordo su qualcosa, era fatta. Quando ogni componente del suo apparato domestico e politico si muoveva senza problemi nella direzione che lui aveva stabilito, aveva un carattere mite e cordiale; ma ogni volta che si presentava un piccolo intoppo, e le cose iniziavano a prendere una brutta piega, era ancora più mite e cordiale, poiché non c’era niente che più lo allietava di raddrizzare le curve e livellare le asperità.
Tra le tradizioni mutuate dalla discendenza non barbarica c’era quella dell’arena pubblica, in cui dimostrazioni di virile e indomito coraggio affinavano e acculturavano le menti dei sudditi. Anche qui, però si affermava l’estro vivace e barbaro. L’arena del re non era stata costruita, infatti, per dare al popolo l’opportunità di sentire le rapsodie dei gladiatori morenti, né per vedere la conclusione ineluttabile del conflitto tra opinioni religiose e fauci affamate, bensì per scopi molto più adeguati ad ampliare e sviluppare le energie mentali degli spettatori. Questo vasto anfiteatro, con quelle cripte misteriose, i passaggi nascosti e le gallerie tutt’intorno, rappresentava un romantico concetto di giustizia, secondo cui il crimine veniva punito, o la virtù premiata, dalle sentenze di un fato imparziale e incorruttibile. Quando un suddito veniva accusato di un crimine abbastanza importante da interessare il sovrano, veniva dato pubblico avviso che in un giorno stabilito la sorte dell’imputato sarebbe stata decisa nell’arena del re; architettura che ben meritava questo nome, poiché, sebbene forma e concetto provenissero da molto lontano, il suo scopo era pura emanazione della mente di quell’uomo, che, Sua Altezza fino all’ultimo centimetro, non conosceva alcuna tradizione a cui essere più fedele che quella di compiacere il proprio estro, e che piantava in ogni forma di pensiero e azione umani il fiorente seme del proprio idealismo barbarico. Quando tutto il popolo si era radunato nelle gallerie e il sovrano, circondato dai membri della corte, seduto lassù, sul trono posto a un lato dell’arena, veniva dato il segnale, un portone sotto il re si apriva e l’imputato entrava nell’anfiteatro. Proprio di fronte a lui, dall’altra parte di quello spazio circoscritto, c’erano due portoni, uno accanto all’altro e assolutamente identici. Era onore e onere della persona sotto processo dirigersi verso uno dei due e aprirlo. Poteva spalancare quello che preferiva: non era soggetto ad alcuna indicazione o influenza, tranne quella del suddetto imparziale e incorruttibile fato. Da uno dei due, sarebbe uscita una tigre affamata, la più feroce e crudele a disposizione, che subito gli sarebbe balzata addosso per farlo a pezzi come castigo della propria colpa. Il destino del criminale sarebbe stato così deciso, le campane di ferro avrebbero suonato afflitte, numerosi pianti si sarebbero levati dalle persone in lutto appostate al bordo dell’arena e il vasto pubblico, con testa china e cuore affranto, si sarebbe con calma incamminato verso casa, in profondo lutto, poiché qualcuno così giovane e bello, o così vecchio e rispettato, era incappato in un destino tanto tragico. Se l’imputato avesse aperto l’altro portone, però, ne sarebbe uscita una dama, la più adeguata per età e condizione che Sua Maestà fosse riuscito a trovare tra quelle del regno; con questa si sarebbe dovuto sposare all’istante come ricompensa della propria innocenza. Non contava nulla avere già una moglie o una famiglia, o che i propri affetti fossero legati alla donna capitata in sorte: il re non avrebbe permesso che certi accordi di natura subordinata interferissero con quell’illustre disegno di punizione e ricompensa. La cerimonia, come nell’altro caso, si sarebbe svolta subito, dentro l’arena. Sotto la postazione del re, si sarebbe aperto un altro portone e un prete, seguito da una comitiva di coristi e di fanciulle danzanti, che suonavano su metri epitalamici arie gioiose con il corno, si sarebbe avvicinato al punto in cui i due stavano, l’una accanto all’altro, e il matrimonio sarebbe stato celebrato con puntualità e allegria. Poi, le giulive campane di bronzo avrebbero suonato felici rintocchi, la gente gridato urrà gioiosi e l’innocente, preceduto da bambini pronti a spargere fiori sul cammino, condotto la sposa a casa.

Questo era il metodo semibarbarico con cui il re amministrava la giustizia. Ne è evidente l’assoluta imparzialità. Il criminale non poteva sapere da quale portone sarebbe uscita la dama: ne avrebbe aperto uno a suo piacimento, senza avere la benché minima idea se, un attimo dopo, sarebbe stato divorato o si sarebbe sposato. Certe volte, la tigre usciva da un portone; certe altre, dall’altro. Le sentenze di questo tribunale non erano soltanto imparziali, ma anche assolutamente definitive: che gli fosse piaciuto o meno, se ritenuto colpevole, l’imputato sarebbe stato punito all’istante; se innocente, premiato sul posto. Non vi era scampo dai verdetti dell’arena.
L’istituzione era molto popolare. Quando i sudditi si riunivano per questi importanti processi, non sapevano mai se quel giorno avrebbero assistito a un sanguinoso massacro o a un felice matrimonio. Questo elemento di incertezza conferiva all’evento quel grado di interesse altrimenti impossibile da raggiungere. Così, le masse venivano intrattenute e compiaciute, e gli intellettuali non potevano accusare questa prassi di imparzialità; d’altronde, non era forse vero che il destino dell’imputato era tutto nelle sue mani?
Questo re semibarbaro era padre di una fanciulla tanto in fiore quanto le sue più floride fantasie, e dallo stesso animo fervido e arrogante. Come di solito accade in questi casi, era la pupilla dei suoi occhi e l’amava più di ogni altro essere umano. Tra i membri della corte, c’era un giovane di quella nobiltà di spirito e bassezza di rango comuni a tutti gli eroi romanzeschi che s’infatuano di una principessa. Lei era molto soddisfatta del suo amante, bello e coraggioso come non ve n’erano altri nel regno; e lo amava con un ardore che aveva abbastanza del barbarico da renderlo eccessivamente appassionato e fiammeggiante. Questa storia d’amore andò avanti con spensieratezza per mesi, finché un giorno il re ne scoprì l’esistenza. Il dovere verso i propri principi non gli concesse di esitare o vacillare. Il giovane fu subito gettato in prigione e fu fissato un giorno per metterlo a processo nell’arena del re.
Certo, questo fu un evento particolarmente importante: Sua Maestà, come tutto il popolo, fu molto interessato alle dinamiche e allo sviluppo del processo. Mai prima d’ora si era verificato un caso del genere. Mai prima d’ora un suddito aveva osato amare la figlia del re.
Negli anni, certe cose divennero abbastanza comuni, ma a quel tempo erano, senza ombra di dubbio, nuove e stupefacenti.
Le gabbie di tutto il regno furono ispezionate alla ricerca delle bestie più brutali e implacabili a disposizione, di modo che per l’arena venisse scelta la tigre più feroce del reame; ovunque, i giudici più competenti esaminarono con attenzione schiere di ragazze giovani e belle affinché l’uomo potesse avere una sposa adeguata, qualora il fato avesse avuto in serbo per lui un destino diverso. Naturalmente, tutti erano ben consapevoli che il crimine di
cui veniva accusato l’imputato era stato compiuto davvero. Aveva amato la principessa, e né lui, né lei, né chiunque altro pensavano di negare i fatti; ma il re non permise che nessun genere di fatti interferissero con le dinamiche processuali, da cui traeva così gran diletto e soddisfazione. Non importava come sarebbe andata a finire la faccenda, il giovane sarebbe stato tolto di torno; e il re avrebbe provato un piacere indescrivibile a osservare il corso degli eventi, che avrebbero determinato una volta per tutte se il giovane avesse sbagliato o meno a permettersi di amare la principessa.
Arrivò il giorno del processo. Venuta da ogni parte del regno, la gente dei borghi si radunò e accalcò nelle grandi gallerie dell’arena; e le folle delle campagne, a cui era negato l’accesso, si ammassarono davanti alle mura esterne. Il re e la corte erano al loro posto, di fronte ai due portoni gemelli: quei portoni fatali, così terribili nella loro similarità.
Tutto era pronto. Fu dato il segnale. Il portone sotto la postazione reale si spalancò e l’amante della principessa entrò nell’arena. Alto, bello e biondo, il suo aspetto fu accolto con un mormorio sommesso di ammirazione e preoccupazione. Metà degli spettatori non sapeva che tra loro vivesse un giovane così maestoso. Non c’era da stupirsi che la principessa lo amasse! Che cosa orribile per lui, essere finito lì!
Mentre il giovane avanzava nell’arena, si voltò, com’era costume, per inchinarsi al sovrano, ma la sua attenzione non era rivolta a quella personalità regale: gli occhi erano fissi sulla principessa, che sedeva alla destra del padre. Non fosse stato per la metà barbarica della sua natura, probabilmente la donna non sarebbe stata lì, ma quell’animo fervido e acceso non le permetteva di mancare a un evento capace di provocarle un interesse così febbrile. Dal momento che l’atto era stato emanato, e quindi che l’amante avrebbe dovuto decidere il proprio destino nell’arena del re, giorno e notte non aveva pensato ad altro che a questo grande evento e ai vari argomenti ad esso collegati. Avendo più potere, influenza e carattere di chiunque si fosse mai interessato ai processi dell’arena, aveva fatto ciò che nessun altro avesse mai osato fare prima: si era impadronita del segreto dei portoni. Sapeva in quale delle
due stanze c’era la tigre, nella sua gabbia aperta, e in quale una dama in attesa. Attraverso quelle spesse porte, all’interno fittamente ricoperte di pelli, era impossibile che alcun rumore o suggerimento giungessero all’orecchio di chi si sarebbe avvicinato per alzare il chiavistello, ma l’oro e la forza di volontà femminile avevano consegnato il segreto alla principessa.

E non soltanto sapeva in quale stanza si trovasse la dama, pronta a spuntare, splendente e imbarazzata, qualora quel portone fosse stato aperto, ma sapeva anche chi fosse.
Era una delle donne più belle e graziose della corte, ad essere stata scelta come ricompensa del giovane imputato, qualora fosse stato provato innocente del crimine di aver aspirato a una persona così al di sopra di lui; e la principessa la odiava. Spesso aveva visto, o credeva di aver visto, questa bella creatura gettare sguardi ammirati al suo amante, e a volte credeva quegli sguardi percepiti e perfino ricambiati. Di tanto in tanto, li aveva visti parlare insieme; non erano che attimi fugaci, ma si può dire molto anche in poco tempo. Magari si trattava soltanto di argomenti irrilevanti, ma come poteva saperlo? La ragazza era graziosa, ma aveva osato alzare lo sguardo sul suo amato; con tutta l’intensità del sangue selvaggio trasmessole da antiche discendenze di avi del tutto barbari, odiava profondamente la donna imbarazzata e fremente che stava dietro quel portone silenzioso.
Quando il giovane si voltò e la vide seduta lassù, più pallida e bianca di qualunque altra faccia nel vasto oceano di terrore intorno a lei, percepì, grazie a quella improvvisa intuizione tipica delle anime gemelle, che sapeva dietro quale portone fosse accovacciata la tigre e dietro quale stesse la dama. Se l’aspettava, che lo sapesse. Conosceva la sua indole, ed era sicuro che non si sarebbe data pace finché non avesse fatto chiarezza su quel segreto tenuto nascosto a tutti i presenti, perfino al re. L’unica speranza per il giovane di avere un appiglio sicuro si fondava sul successo della principessa di risolvere il mistero; nel momento in cui l’aveva guardata, aveva visto che ci era riuscita, ma in cuor suo sapeva che ce l’avrebbe fatta.
Fu allora che i suoi occhi, rapidi e ansiosi, glielo domandarono: “Quale?” Le giunse chiara come se la stesse gridando dal punto in cui si trovava. Non c’era un secondo da perdere. La domanda era stata posta in un lampo; si doveva rispondere in un altro.
Il braccio destro era appoggiato al parapetto imbottito davanti a lei. Alzò la mano e fece un leggero, rapido movimento verso destra. Nessuno, tranne il suo amato, la vide. Tutti gli occhi erano fissi sull’uomo nell’arena.
Si voltò e con passo rapido e deciso attraversò lo spazio vuoto. Ogni cuore smise di battere, ogni respiro fu trattenuto, ogni occhio fissò quell’uomo. Senza la minima esitazione, si avvicinò al portone di destra e l’aprì.
Ora, il punto del racconto è questo: da quel portone è uscita la tigre o la dama?
Più riflettiamo su questa domanda e più è difficile rispondere. Implica uno studio del cuore umano che ci conduce attraverso i tortuosi labirinti della passione, dentro i quali è però difficile trovare la strada. Pensateci, gentili lettori, non come se la decisione dipendesse da voi, ma da quella sanguigna principessa semibarbara, il cui animo era incendiato sia dalle fiamme della disperazione sia da quelle della gelosia. Ormai lo aveva perso, ma chi avrebbe dovuto averlo?
Chissà quante volte, nelle ore di veglia e nei suoi sogni, avrà sussultato di folle paura e si sarà coperta il viso con le mani, al pensiero del suo amante che apriva il portone dietro cui lo aspettavano le crudeli zanne della tigre!
E chissà quante altre l’aveva visto al secondo portone! Come, nelle sue dolorose fantasticherie, avrà digrignato i denti e si sarà strappata i capelli, nel vederlo sussultare di una gioia indicibile mentre apriva il portone della dama! Come la sua anima avrà bruciato di sofferenza nel vederlo correre incontro a quella donna, con le guance rosse e gli occhi scintillanti di trionfo; nel vederlo condurla fuori, ogni muscolo illuminato dalla gioia della vita ritrovata; nel sentire le grida festose della massa e il suono incontenibile delle allegre campane; nel vedere il prete, insieme a quei giulivi seguaci, avanzare verso gli sposi e farli marito e moglie davanti ai suoi stessi occhi; nel vederli allontanarsi insieme lungo il sentiero di fiori, seguiti dagli impetuosi strilli della massa divertita, dentro cui il suo grido disperato e solitario si perdeva e affogava!
Non sarebbe stato meglio fosse morto all’istante, così da poterla attendere nelle beate regioni dell’al di là semibarbarico?
Eppure, quella tremenda tigre, quelle grida, quel sangue!
Aveva comunicato la sua scelta in un secondo, ma era stata presa dopo giorni e notti di angosciose riflessioni. Sapeva che glielo avrebbe chiesto, così aveva deciso che rispondergli e, senza la minima esitazione, aveva mosso la mano verso destra.
La questione della scelta non è cosa da prendere alla leggera, e non sarò così presuntuoso da credere di essere l’unica persona in grado di rispondere. Quindi, mi rimetto a tutti voi: cosa è uscito dal portone, la dama o la tigre?

Sul tradurre | Il ritorno di Nat Tiengo

Alain Beremboom
La dama o la tigre?
traduzione italiana a cura di Angela Valente

Ricordo Nat Tiengo come una ragazzina gracile e scontrosa. A dodici anni, mentre tutte le altre ragazze della classe cominciavano a truccarsi, a pettinarsi secondo la moda, a vestirsi in modo provocante, Nat provava un piacere diabolico nel rendersi brutta.
Magliette troppo grandi, gonne di altri tempi, acconciature da bambina – le trecce con i nastrini, pensate bene! – niente era abbastanza orrendo per lei. Ma era la prima della classe, senza ombra di dubbio: matematica, francese, scienze, non una materia in cui non brillasse. Sempre immersa nelle sue lezioni, in libri o riviste spaventosamente seri, Nat saliva a rifugiarsi in biblioteca appena suonava la campanella della ricreazione mentre noi ci precipitavamo sul campo da calcio. Nessuno fu quindi sorpreso quando si mise a portare gli occhiali – con una montatura ridicola, naturalmente, delle grosse aste di tartaruga nera che le nascondevano il faccino. Isolata dal resto del mondo da un muro di libri, ci sarebbe voluto un ariete per penetrare quella roccaforte. Io non ci pensavo – non più di quanto facessero i miei compagni. Perché a ossessionarci tutti c’era Odette. Odette, una ridente bionda dal lungo collo di madreperla, fisicamente già una vera ragazza che portava a spasso, con una grazia irresistibile, un mucchio di rotondità misteriose facendo finta di non vedere gli sguardi famelici dei suoi poveri ammiratori.
Le giravamo attorno come paparazzi in calore, trovando sempre un pretesto per avvicinarla, parlarle, sfiorarle la pelle iridescente delle braccia. Fatica sprecata. Odette era una star. A volte ricompensava la nostra assiduità con un magnifico sorriso ma concedeva i suoi favori soltanto alle sue due amiche. Immerse in interminabili conciliaboli segreti, tutte e tre trascorrevano il loro tempo a scambiarsi vestiti, dischi e foto e a scoppiare a ridere
ogni volta che comparivo. Ma pazienza…
Mi aspettavo molto dalla gita che, a maggio, ci avrebbe portato per una settimana sulle montagne svizzere. Se, nell’ambiente ristretto della scuola, non ero riuscito ad attirare la sua attenzione, nella patria del cucù la vittoria era (quasi) assicurata. Lo scenario esotico, l’ebrezza delle altezze, la lontananza e le lunghe ore di passeggiate che aiutavano a lasciarsi andare, mi avrebbero permesso di dispiegare tutto il mio fascino. Odette mi avrebbe dato l’occasione di giocare le mie carte, ne ero certo, era fatta.
Ahimè, siccome molti altri avevano architettato lo stesso piano, la vamp, piena, non trovò nella sua agenda la possibilità di concedermi il minimo incontro. Nonostante tutti gli sforzi, non mi rivolse nemmeno uno sguardo. Ero così deluso della sua poca attenzione che mi ritirai, imbronciato, nel mio angolino come un re decaduto. Per fortuna, su consiglio di mia madre, la mia valigia era zeppa di libri – è a questo periodo che risale la mia passione per la lettura: grazie Odette!
Mentre ero immerso in I demoni di Dostoevskij (la copertina ben dritta affinché tutti sapessero) Nat si avvicinò a me. Era la prima volta che notavo la sua presenza dal nostro arrivo in Svizzera. Se mi avessero chiesto se ci stesse accompagnando, non avrei saputo rispondere. Mentre si calcava nervosamente gli occhiali sul naso, mi chiese, farfugliando, se avessi un libro da prestarle. Nell’eccitazione della partenza, aveva dimenticato in camera sua lo zaino di libri che aveva preparato con cura. Sentivo quale sforzo le stesse costando chiedermelo. Mi faceva piacere, è vero – patetica rivincita contro la delusione di Odette. Dopo un attimo di silenzio, feci di no con la testa, come davanti a un bambino inopportuno che continua a elemosinare un dolcetto e con tono arrogante le chiesi quale genere di libri potesse mai leggere lei, facendole capire che quelli che avevo portato probabilmente erano troppo difficili. Nat arrossì, si ricalcò gli occhiali sul naso poi si allontanò mormorando «Scusami. Non parliamone più». Più tardi, in imbarazzo per il mio comportamento, feci scivolare sotto il suo cuscino la mia copia di I demoni.
Il giorno dopo trovai nelle lenzuola due paroline di ringraziamento a cui erano attaccati dei fiori già appassiti. La copia di Dostoevskij ritornò nello stesso modo: in fondo al letto.


Subito sistemai sul suo cuscino un altro libro che mi fu restituito con un biglietto “Mah. Non hai niente di meglio?”. Il giochino continuò così fino alla fine delle vacanze senza che nessuno sospettasse della nostra complicità. Durante il giorno facevamo finta di non vederci, di non conoscerci.
Al rientro scolastico successivo, Nat cambiò scuola. I suoi genitori si erano separati. Ormai viveva con sua madre in un’altra città. Prima di partire, nella mia cassetta postale lasciò una copia di Delitto e Castigo con queste parole: “Nell’attesa di ritrovarci”.
Da quando era scomparsa, il suo aspetto dinoccolato, i suoi vestiti strappati, troppo grandi, la sua aria distante e ironica mi mancavano. Odette mi sembrava davvero insulsa.
Speravo nel ritorno di Nat l’anno seguente. Ma terminai gli studi e poi l’università senza rivederla. Domandai a qualche compagno del liceo. Nel frattempo, ero entrato negli affari – consulente finanziario indicava il mio biglietto da visita. Un giorno, passando davanti a una libreria, fui sorpreso nello scoprire il suo nome stampato a grandi lettere su una locandina.
Nat Tiengo era invitata la domenica dopo a presentare il suo nuovo libro, La madre dimenticata. Non sapevo che fosse diventata scrittrice. A dire il vero, la narrativa non mi interessava più da quando mi ero messo a lavorare; pensavo a leggere solo il necessario.
Mi precipitai nel negozio per comprare il libro. Ce n’era una pila intera su un tavolo in bella vista all’entrata del negozio. Percorrendo la copertina, venni a sapere che La madre dimenticata era il suo terzo romanzo. Comprai immediatamente gli altri due che, mi disse il libraio, avevano conosciuto un successo meritato. E li divorai la sera stessa fino a tarda notte.
Erano infatti dei libri stupendi. Drammatici e divertenti allo stesso tempo. Storie di famiglie dilaniate, di coppie disfatte e di sorelle che si odiano. Fin dalle prime pagine ritrovavo l’ironia di Nat e la sua distanza in quei ritratti patetici di padri, madri, sorelle, tracciati con uno stile semplice, secco. Nat riusciva a suscitare l’emozione del lettore con un’economia di mezzi che mi meravigliò. Anche se quel genere di racconti non mi era mai piaciuto, uscii
dalla lettura sconvolto, con l’impressione che Nat li avesse scritti per me.
La domenica seguente ero così emozionato che, arrivato davanti alla libreria, stavo per tornare indietro. Siccome c’era molta gente, mi ritrovai a spingere la porta e mi persi nella folla. Ritornata la calma, voltai la testa senza scorgere Nat. Stavo chiaramente cercando una ragazzina gracile di tredici anni infagottata come un sacco di patate. Appena si creò il silenzio, uno spot illuminò il piccolo palco allestito per l’occasione. Lei era lì, in piedi, nell’ombra del libraio. Con venticinque anni in più, Nat aveva conservato un aspetto da adolescente cresciuta troppo in fretta, con le lunghe braccia magre e l’aria spaventosamente a disagio davanti a tutti quegli sguardi posati su di lei, un cerbiatto
impaurito in mezzo a una muta di cani. Solo l’estetica della montatura degli occhiali era evoluta. Con una certa esitazione, si sedette su un angolo della sedia, calcò gli occhiali con un movimento che conoscevo bene e guardò la porta come per calcolare la distanza che la separava dell’uscita mentre il libraio vantava le sue qualità e spiegava l’importanza del suo ultimo libro. Poi rispose alle domande con una voce bianca, appena udibile, con un’evidente fretta di finire. Quando la parola fu data al pubblico, Nat si animò un po’. Per un attimo pensai di farle una domanda o di dirle quanto mi fossero piaciuti i suoi libri ma non ne ebbi il coraggio. E mi dissi che riconoscendomi, rischiava di perdere quel po’ di facoltà che sfoggiava ancora.


Seguì il momento degli autografi. Davanti al tavolo si formò una lunga fila. Erano soprattutto donne che avevano tutte qualcosa da dirle – probabilmente si erano riconosciute nei personaggi e si chiedevano come facesse Nat a conoscerle così bene.
Con i tre libri sottobraccio, esitai a mettermi in fila. Quando mi decisi era troppo tardi. Nat ha un treno da prendere, annunciò il libraio. Con gran dispiacere doveva interrompere la sessione delle dediche. Nat si alzò, imbarazzatissima. Per scusarsi, fece un piccolo cenno con la mano verso chi stava aspettando e si allontanò con il libraio. Mentre si dirigeva verso l’uscita del negozio, ebbi un’idea. Mi precipitai verso la sezione dei libri tascabili, mi impossessai di una copia di I demoni, scarabocchiai in fretta le seguenti parole: “Immagino che per l’ennesima volta avrai dimenticato di prendere un libro per il viaggio” e le feci scivolare il libro tra le mani mentre saliva in taxi. Tornando a casa, mi ricordai che, nella fretta, avevo dimenticato di scrivere il mio nome e l’indirizzo. Tuttavia, quindi giorni dopo, nella cassetta postale scoprii un involucro che conteneva una foto in bianco e nero molto sfocata. Io, a tredici anni, seduto su una grossa pietra mentre leggevo I demoni.

Nota di traduzione:
Le retour de Nat Tiengo di Alain Beremboom (1947-), con le sue cinque pagine, rappresenta una piccola sfida traduttiva.
Perché? Perché le dominanti del racconto sono due e l’una si innesta sull’altra: l’esattezza lessicale e la coordinazione per asindeto. Il risultato è un periodo molto lungo che esclude ricorsi alla sinonimia, ma tanto meglio e riposino in pace le buone e vecchie pratiche del traduttese e dell’antilingua.
Per questi motivi e per la lealtà dovuta al testo di partenza, ho cercato di mantenere il più possibile la precisione lessicale – con le sue ripetizioni – e la struttura del periodo, punteggiatura compresa. A volte, invece, ho negoziato un po’ tra le due lingue per andare più incontro al lettore italiano. È il caso, per esempio, della virgola dopo le circostanziali temporali: in francese è obbligatoria mentre in italiano appesantisce la lettura. Da qui la scelta di eliminarla dove possibile.
Consapevole, in ogni caso, che questa traduzione imperfetta è solo una di altre e infinite possibilità imperfette, vi lascio alla lettura del racconto Il ritorno di Nat Tiengo.

La ribellione delle donne di Roth

Un solo palco per tre storie. Scenografie essenziali che occupano tutta la lunghezza del palcoscenico, divise solo da uno spazio vuoto. Attori che si avvicendano e luci che illuminano ora l’una ora l’altra scena. La scelta di Laura Angiulli permette allo spettatore di non confondere personaggi e trame, avendo ben chiara la divisione anche a livello visivo, e crea, allo stesso tempo, un legame più o meno esplicito tra le storie.

Lucy e le altre porta in scena tre romanzi dello scrittore culto Philip Roth, in particolare Quando lei era buonaPastorale americana e Inganno.
Il primo fil rouge è proprio Roth quindi, e la sua America, il suo sguardo cinico e la precisa e drammatica analisi degli uomini. Bisogna avere conoscenza della sua produzione per sapere che i tre romanzi coprono anni diversi della storia americana, in ordine anni ’40, ’70 e ’90, permettendo quindi uno sguardo ampio all’evoluzione della società (secondo fil rouge, mancato). Nello spettacolo, tuttavia, la regista sceglie di decontestualizzare quasi del tutto la narrazione. Pochi sono i dettagli geografici e temporali in cui collocare le vicende (Guerra del Vietnam), una scelta dettata dalla possibilità di dare un respiro universale alle dinamiche interne e alle tematiche. Il leitmotiv più interessante è però la scelta di portare in scena alcuni dei, pochi, personaggi femminili dei testi di Roth.
Il titolo, è presto detto, si ricollega proprio a quest’ultimo punto. Lucy è l’unico personaggio femminile che abbia sua piena centralità nella grande produzione dello scrittore americano, poi ci sono “le altre” appunto, tra cui Merry e la donna inglese del terzo libro.

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Cominciamo proprio da Lucy: la conosciamo ragazzina, alle prese con il dolore di un padre violento e una madre rassegnata alla vita che ha scelto: nessuna ribellione, accettazione servile di un destino scritto. È lei a fare la parte del genitore, cercando con rabbia di scuotere la madre, chiedendo aiuto ai nonni, seduti a osservare la scena: lei in disparte, mai troppo coinvolta, lui dall’alto, come un giudice non in grado di porgere una mano. Giudizi senza compassione e partecipazione emergono non solo dalla disposizione sulla scena ma con un tono di voce sempre pacato di lui (Gennaro Maresca), quasi monocorde, e stizzito di lei (Caterina Pontrandolfo), che non ci si aspetta davanti al dolore di parte della famiglia.
La madre (una brava Federica Aiello), nelle sue brevi entrate in scena, è vestita di nero e con una certa eleganza porta il lutto per la morte non di un corpo, che rimane ferito ma vivo, ma per l’anima e la libertà proprie. Composta, quasi fredda, morta. È possibile che il lutto riguardi anche quel marito assente e qui la domanda si fa universale: perché soccombere?
L’interrogativo si lega alle vicende successive. Lucy, nonostante i consigli dell’amica (Fabiana Spinosa in una piccola parte), si lascia abbindolare da Roy (un Paolo Aguzzi scanzonato che funziona meno nei momenti più drammatici, mi ha ricordato il Danny di Grease) e rimane incinta. Inizia la loro vita insieme, da genitori, e la convivenza non va secondo i piani: è insoddisfatta e molto dura con lui che invece di cercare un lavoro insegue i suoi sogni e si lascia manipolare da uno zio fedifrago (Carlo Di Maio risulta più convincente nella parte finale, quando rivela la sua vera personalità). Quando lui torna dalla famiglia portandosi il bambino, Lucy implora di vederlo, di riprovare a costruire una famiglia ora che la bambina che tanto desiderava è nata. Si lascia andare sul suolo, coperta dalla neve.
Lucy, come la madre, nell’interpretazione di Alessandra D’Elia che rivela una figura più capricciosa che in conflitto, ha lasciato che il destino decidesse per lei. La ragazzina paladina della giustizia soccombe, come la madre. Salvare il salvabile, essere ligia più che al dovere, alla società che ti vuole moglie e mamma. Il fallimento non è contemplato.

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Merry è una delle figure femminili più conosciute di Roth perché personaggio del romanzo considerato suo capolavoro e portato al cinema nel 2016 con la regia di Ewan McGregor, anche attore nella parte del padre, “Lo Svedese”, Seymour Levov.
Poco si sa della vicenda perché anche qui si cerca di render più protagonista la donna a differenza del romanzo. Merry è un’adolescente di una famiglia borghese, una di quelle perfette da incorniciare. Infuria la Guerra del Vietnam e i disordini razziali diventano realtà. In Merry cresce una rabbia nei confronti di una guerra che non fa sconti e di chi, come il padre, rimane nella sua casa perfetta senza combattere. Questa rabbia prende il sopravvento e lei decide di unirsi a un’organizzazione politica estremista. Si renderà complice di un attentato in cui moriranno alcune persone e deciderà di scappare. Lo Svedese passerà anni a cercarla, ma riusciranno a ricongiungersi solo per poco.
Riuscitissima è la parte di Jerry Levov (Luciano Dell’Aglio), zio di Merry, che ha sempre vissuto all’ombra di Seymour ma che ama moltissimo. È molto duro con il fratello per non aver tenuto sotto controllo la figlia, verso cui nutre un vero odio, di aver creduto che la sua vita fosse perfetta e non ci fosse bisogno di lui. Il momento più coinvolgente è verso la fine della storia, in cui Jerry parla allo Svedese: “Ma se mi stai dicendo la verità, che Merry è morta, è la più bella notizia che io abbia mai sentito. Nessun altro ti parlerà così. Gli altri ti offriranno la loro compassione. Ma io sono cresciuto con te. Io ti parlo senza peli sulla lingua. La cosa migliore, per te, è che sia morta. Merry non ti apparteneva. Non apparteneva a nulla che si potesse identificare con te. Non apparteneva a nulla che si potesse identificare col tuo mondo”.
Nessuna remora a creare un personaggio che non ha paura di mostrare l’oscurità dell’animo umano.
La parte di Merry è affidata a Caterina Spadaro: balbetta, e forse questo suo difetto che toglie un po’ di “perfezione” alla sua persona la avvicina a una battaglia in cui può sentirsi parte di qualcosa, ma che in scena viene interpretato in maniera un po’ caricaturale, ponendo troppo l’accento sul difetto di pronuncia e su dei modi di fare da bimba capricciosa. Lo Svedese (Antonio Marfella) sulla scena convince più con l’espressività che con la voce: lo sguardo fermo riesce dove i toni vocali possono apparire leggermente forzati.
Eccola la seconda donna, una ribelle che, come Lucy, si autodistruggerà.

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Ancora un matrimonio e una relazione d’amore nella rappresentazione tratta da Inganno. Protagonisti uno scrittore americano e una donna di cui non si conosce il nome. Lui è seduto a un tavolino a scrivere, lei si sposta nervosamente: stesa o seduta su un lettino, o ancora seduta a terra. Si tratta di un dialogo serrato tra i due, pochi elementi di contesto. Tra una battuta e l’altra scopriamo che sono due amanti. Lei (Fabiana Fazio), opta per un’espressione sempre uguale a se stessa così come il tono di voce, conferendo un’idea di piattezza con la sua interpretazione al personaggio di giovane donna imprigionata in un matrimonio insoddisfacente, ma nessun elemento ci aiuta a comprenderne le ragioni e i motivi del suo restare, a differenza di Lucy.
Pensi che servirebbe se andassi da uno psichiatra? Perché quello che ancora non ho capito è cosa voglio veramente.”
Una forma di ribellione diversa la sua: avere una relazione parallela per sfuggire a una quotidianità desolante, che sembra trasformarsi più in una seduta psicologica che in un incontro tra amanti, almeno sulla scena.
Si attesta su un registro più naturale Giovanni Battaglia nella parte di uno scrittore dedito all’ascolto, di poche parole, perché interessato a rubare materiale dalle persone che incontra per poi trasporlo nei suoi libri. Un’interpretazione che si avvicina al personaggio di Roth, in questo caso suo alter ego. Ed è quello che in effetti fa in scena, come nel romanzo: sta scrivendo un libro che è poi il resoconto delle loro conversazioni.
Il finale spiazza: il dialogo si trasforma in una pacata discussione tra lui e la moglie, la stessa attrice con una parrucca bionda, che dice di aver letto i suoi taccuini e lo accusa di tradimento. Lui tenta così di convincerla, con poche ma scelte parole, che si tratta di invenzioni, di una relazione immaginaria, materiale del libro che sta scrivendo.

Portare in scena dei romanzi come quelli di Philip Roth non è cosa semplice, tanto più se li si estrapola dal loro contesto di origine ma soprattutto se non viene rimarcata la capacità analitica dell’autore di tratteggiare gli uomini, con violenza e molto cinismo. Nella trasposizione, necessariamente, si perde molto, ma sperimentare non è un male. Un plauso alla regista e agli attori tutti.
Leggete Roth.

Lucy e le altre
da
 Philip Roth
drammaturgia e regia Laura Angiulli
con Paolo Aguzzi, Federica Aiello, Giovanni Battaglia, Luciano Dell’Aglio, Alessandra D’Elia, Carlo Di Maio, Fabiana Fazio, Antonio Marfella, Ginestra Paladino, Caterina Pontrandolfo, Caterina Spadaro, Fabiana Spinosa
progetto luci Cesare Accetta
impianto scenico Rosario Squillace (con la partecipazione degli allievi del biennio di scenografia teatrale dell’Accademia di Belle Arti di Napoli)
illuminotecnica Lucio Sabatino, Luca Sabatino
assistente Martina Gallo
aiuto macchinista Saman Munasinha Mudyanselage
direttore di scena Clelio Alfinito
collaborazione alla ricostruzione storica Lavinia D’Elia
foto di scena Ivan Nocera
produzione Teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo
lingua italiano
durata 1h 30’
Napoli, Galleria Toledo, 26 ottobre 2021
in scena dal 22 al 31 ottobre 2021

Articolo originale uscito su Il Pickwick.

Confini fisici e mentali | Il confine del paradiso

“Una prigione diventa casa se possiedi la chiave.”
 George Sterling

Non volevo farla finita vicino a casa, dove avrebbe potuto trovarmi mia moglie, oppure, ed è ancora più terribile pensarci, i miei figli. […]. Non ho fatto altro che causare problemi a tutti e tre, e la cosa peggiore è che mi amavano lo stesso; e quindi non so proprio come questo possa essere altro che un tradimento e un’ingiustizia.

Siamo di fronte a una certezza, quella che caratterizza tutti noi: la morte. Il confine del paradiso di Esmé Weijung Wang comincia dagli ultimi attimi di vita di David, dal suo biglietto d’addio, a dimostrazione di come quell’evento sia un punto fondamentale della storia, di quanto lui sia uno spartiacque tra due vite.
Primo romanzo della scrittrice statunitense nata da genitori taiwanesi, consta di quattro parti e segue la cronologia degli avvenimenti ma alterna i punti di vista: tranne per la prima in cui a raccontare è David, nelle altre i capitoli vengono alternati tra i diversi personaggi principali di quel lasso di tempo e questo permette di indagare a fondo pensieri e azioni.
Tutto ha inizio con i Novak, una famiglia di ebrei polacchi emigrati in America in cerca di fortuna. La fortuna la trovano, il sogno americano si avvera: fondano la Novak Piano Company che prima della guerra conosce una grande fortuna, pari ai celebri pianoforti Steinway. Con la guerra e la conseguente instabilità la musica cambia per gli affari, ma la loro apparente tranquillità non muta. Presto David inizia a dare sfogo a quelle che si rivelano nevrosi: attribuiva ai suoi pupazzi un’anima e quando uno di questi subiva deterioramento, lui arrivava ad avere attacchi di panico.

Racconta che il suo primo incontro con il suicidio risale alla lettura di L’uomo che amava i lupi di William P. Harding, gesto che “non riusciva proprio a capire”; fatto sta che la lettura avrà effetti sulla sua formazione. Sopraggiungeranno nel frattempo altre nevrosi come la dismorfofobia e quella che l’autrice ha definito, inventandola, vitafobia. Le voci sul suo conto iniziano a circolare, il peso di questa situazione e del nome, della reputazione della famiglia diventano un fardello troppo grande per due spalle gracili: essendo lui l’erede, verrà presto catapultato nel mondo dei pianoforti per imparare il mestiere e si ritroverà ancora molto giovane a capo dell’azienda di famiglia, alla morte del padre. Una parentesi felice di questa adolescenza travagliata è l’incontro con Marianne, figlia di alcuni vicini: entrambi innamorati l’uno dell’altro, nonostante Marianne si riveli molto devota ed esprima il desiderio di entrare in convento, saranno costretti a separarsi quando David deciderà di vendere l’azienda al braccio destro del padre: che vita può offrire a una giovane donna un uomo che non è capace di reggere le redini di un’azienda?
L’ultima cosa a cui volevo pensare era quanto fosse difficile essere una persona ed essere vivi.

Compiuti i diciotto anni David vola a Taiwan, e qui comincia un’altra storia. L’incontro con una cultura diversa dalla nostra avviene con la comparsa di Jia-Hui, figlia di una mama-san (capo di un bordello) e di un boss della criminalità organizzata, che si occupa di trovare ragazze da far lavorare nel locale della madre. Ha potere Jia-Hui nel suo mondo, ha il potere di far cambiare vita a giovani donne che spesso, molto spesso, scappavano da situazioni peggiori. I due si innamorano e tornano in America. Lei diventa Daisy, il suo agnellino orientale. Ma è amore? Proprio David scrive di essere stato ammaliato dall’esoticità di colei che diventa presto sua moglie; quell’attrazione per l’esotico, il lontano. La porta con sé come si fa con un souvenir. L’impatto con la Grande Mela viene reso perfettamente attraverso il rifiuto del cibo tipico americano di hamburger e patatine per esempio, che l’autrice non riesce a mandar giù tanto da cibarsi per alcuni giorni di solo latte anche per nutrire il bambino che porta in grembo; ancora, notiamo un grande cambiamento di una ragazza nata e vissuta con due tagliagole trasformarsi in una donna bisognosa quasi d’amore, di attenzioni. C’è però un altro tema molto importante che caratterizza questa parte e il rapporto tra i due ed è la lingua: nel capitolo in cui Daisy incontra la madre di David ci sono alcune linee al posto delle parole, un po’ come si usa fare nel gioco dell’impiccato; qui la differenza sta nella linea continua e non nei trattini. Non è un gioco a indovinare. Si svela in tutta la sua forza una mancanza difficile da colmare, quella dell’impossibilità di dialogo e quindi di comprensione che non è solo comprensione tra due persone, ma della realtà in cui vivi. I due non comunicano, fondano il loro rapporto su sensazioni, su vuoti da riempire, sulla fisicità. Come comprendere i bisogni dell’altro, come incontrarsi negli intenti, come scontrarsi nelle idee! Come può un luogo indecifrabile diventare casa! I pensieri si attorcigliano su se stessi e rimangono tali.
L’amore terreno non è un baluardo contro la solitudine.

Le nevrosi di David non sono mai sparite ma Daisy, di fronte alle ferite auto inferte e alla confusione, non abbandona suo marito. Dopo aver vissuto in albergo si trasferiscono a Polk Valley, California. Il desiderio di solitudine di David, lontano da bisbigli, sguardi di compassione e da altri addii, non è mai scomparso. Il trasferimento in una casa nel bosco sarà una scelta naturale, ma anche la casa e la famiglia non riescono a placarlo, salvo alcuni rari momenti. Nasce William e dopo poco tempo arriva Gillian, figlia di David ma non di Daisy, così simile al padre. La vita prosegue nell’isolamento del loro covo, nella paura che il peggio possa accadere e così chiede al marito di insegnarle a guidare nel caso dovesse servire.

Mi distruggeva dover stare sempre all’erta, non dire mai una parola che potesse essere interpretata come scortese, fare tutto quello che voleva lui, che mi andasse o meno, incoraggiarlo, proteggere i nostri bambini dalla sua follia eppure non riuscire nei miei patetici tentativi, sentirmi inutile, vivere con lui, amarlo, essere una moglie coscienziosa e sapere che non faceva alcuna differenza.

Fino a che. Ritorniamo così al principio ma questa volta non è David a raccontarsi. Daisy si ritrova da sola, a ripensare alle volte in cui avrebbe potuto andare via, tornare a Taiwan e lasciarsi la malattia alle spalle, la solitudine che l’amore non può cancellare, una vita che ha avuto solo pochi sprazzi di felicità, ma a senso unico. Lasciare quella famiglia allargata che non è più sua. Eppure era stata avvisata: David è pazzo. Ora è lei a dover prendere le redini, a dover andare in paese per comprare il cibo. Ricomincia a parlare la sua lingua con i bambini, cosa che David non voleva perché sono bambini americani e lui il mandarino non lo capisce. Qualcosa scatta in lei: Gillian deve diventare la tongyangxi di William. Questa pratica, tipica della Cina, è stata dichiarata fuori legge nel 1949 ma ha resistito a Taiwan più a lungo e può esser vista come un matrimonio combinato in cui una famiglia con un figlio maschio preadolescente adotta una figlia femmina di pari età o un po’ più piccola, allo scopo di farli crescere insieme, con la stessa disciplina e gli stessi ideali. Una volta pronti, i due si uniscono sessualmente e convolano a nozze per garantire la prosecuzione della stirpe. La giovane donna è destinata inoltre alla cura dei genitori adottivi. È il ruolo che di solito spetta alle figlie femmine, con l’aggravante di essere costretta a una vita non voluta, ma spesso l’unica possibile. Trasuda egoismo dal romanzo, possesso per paura di rimanere soli. Rinchiusi in un paradiso che diventa inferno, costruito su misura, da cui è impossibile fuggire per l’incapacità di vivere in un mondo che non si conosce, con regole e spazi e persone e. Il confine della loro casa non è solo fisico ma è diventato mentale, l’unico esistente e possibile. Ma non per Gillian, a cui vengono imposte regole molto dure. William accetta invece questo destino, desideroso di amarla. Che la follia sia ereditaria? Io credo che, come dice Marianne, ogni azione ha delle ripercussioni e quelle di David, volute o meno, hanno avuto delle conseguenze sulle scelte della famiglia, anche indirettamente vista la sua scomparsa quando i figli erano piccoli. L’isolamento, la costrizione entro certi confini mentali e fisici, le regole, la privazione di libertà che in Gillian si trasforma in sofferenza perché certa che ci siano altre realtà, il sentirsi lei destinata a un compito scelto da altri ne hanno minato la psiche. Si vuol parlare di follia? Nel confine di una casa che è diventata una prigione, la chiave è soltanto una.

Pubblicato precedentemente su Il Pickwick.

Viviana Calabria

Esmé Weijun Wang
Il confine del paradiso
traduzione di Thais Siciliano
pp. 414
Edizioni Lindau