“Dogman”: quando il bisogno di inclusione è più forte

Conoscete la storia, vera, del Canaro della Magliana? Io a guardare il film ci sono andata ignorando completamente i fatti. E forse è stato un bene, perché il cinema è arte, è raccontare storie, è narrare di vite simili ma mai uguali alla realtà. E Garrone nel suo Dogman prende spunto da un fatto vero, conosciuto, che si è inciso nelle coscienze di tanti, riuscendo nello stesso tempo a distaccarsene, a prendere una strada diversa che portasse alla luce le contraddizioni degli uomini.
Guardatelo con questi occhi, lontani da paragoni con la realtà, lasciate che vi parli di un’umanità complessa come la nostra che riesce a esprimere davvero se stessa nella violenza, in quell’istinto di sopravvivenza che non possiamo ignorare.

La vicenda che Matteo Garrone porta sullo schermo è ambientata ai giorni nostri, in una periferia che dovrebbe essere romana a giudicare dall’accento dei personaggi, girata a Castel Volturno, così vicina a me eppure lontana, ma in realtà è un luogo che potrebbe essere ovunque, uno spazio deserto, privo di colore se non per alcune giostre solitarie e un mare in lontananza che richiama in realtà un tempo disgiunto, estraneo a ciò che succede intorno e di cui lo spettatore non è a conoscenza. Quasi uno scenario apocalittico, abbandonato.
Qui ritroviamo Marcello, uno splendido Marcello Fonte che traspone tutta la sua umiltà, semplicità e purezza contraddittoria al personaggio; un toelettatore con un suo piccolo negozio in cui si prende cura dei cani, una cura da padre, un amore che si coglie dal modo in cui li chiama “amooore”, con una dolcezza che solo chi ha provato può comprendere, e in uno sguardo che i suoi grandi occhi non possono nascondere. Marcello è separato dalla moglie ma ha una figlia che ama, a cui dedica ogni attenzione e che cerca di tenere lontana dal grigiore, o forse buio, di quei luoghi che abita portandola a fare immersioni.
Simoncino, perfettamente interpretato da Edoardo Pesce, è l’altra metà, un outsider in un mondo di esclusi, un ex pugile che tormenta gli altri “vicini” a suon di minacce espresse con le parole o con la forza, esprime una solitudine e una supremazia infantile che cerca di zittire con la droga che Marcello gli procura, spacciatore per necessità, e con la sottomissione dei più deboli.
Intorno a loro ci sono altri personaggi che vivono le loro esistenze nella miseria umana, creando una comunità di resistenza che vuole, però, liberarsi dai soprusi tanto da ideare l’omicidio di Simoncino, che non avrà buon esito.
In seguito a una rapina di Simoncino al “compro oro” di fianco al negozio di Marcello, quest’ultimo finirà in carcere, un evento che viene quasi annunciato all’inizio del film, in una scena di forte intensità generata solo dallo sguardo di Marcello dietro una persiana, come dietro le sbarre. Le prove sono contro di lui e non ammetterà mai di essere stato un complice costretto. Uscirà dopo un anno, un periodo che nel film non viene raccontato ma mostrato attraverso la
vendetta finale.
Matteo Garrone ha creato un film in cui amore e violenza si mescolano nei rapporti tra due persone così diverse ma che hanno qualcosa che li attrae: Marcello teme Simoncino, ha paura delle sue reazioni ma è allo stesso tempo espressione di una forza che non possiede, una libertà di vivere senza paura e così resiste, resiste fino a quando il carcere non lo trasfigura. Ritorna a casa da solo Marcello, nessuno è lì ad attenderlo e anche la figlia gli sarà tenuta a distanza dalla madre. Proverà a ricominciare, questa volta isolato perché considerato un traditore da quella stessa comunità di cui faceva parte, ed è allora che medita vendetta.

“A me qua mi vogliono tutti bene nel quartiere”. È concentrato tutto qui il senso del finale. Che Marcello sia cambiato e che si senta tradito lo si immagina dagli eventi e dal suo sguardo, così come dalla mancanza di quel sorriso che all’inizio riusciva a donare. Ma ciò che gli preme davvero è poter essere di nuovo parte della comunità di chi andava avanti nonostante tutto, come lui. Vuole dimostrare di essere ancora dalla loro parte, di essere quello di prima ma più forte. E allora, con una scusa, rinchiude Simoncino in una delle gabbie per cani che ha nel suo negozio. Tenta di ammansirlo, ma lui urla sempre più forte tanto da zittire i cani che sono rinchiusi, fino a riuscire a rompere i cardini e crearsi un’uscita. È qui che Marcello colpisce, per poi pentirsi. Una scena straziante si fa spazio: Simoncino è legato e insanguinato sulla terra, Marcello lo cura e gli chiede scusa con la stessa dolcezza e premura che ha verso i cani, nella dimostrazione che si tratta di un uomo che risponde con la violenza per necessità. La morte arriva per l’ex pugile, inevitabile, forse per pura difesa o forse perché, semplicemente, doveva accadere.
Si può parlare di tranquillità ora che il problema è stato risolto? Quello di Marcello è un fardello che porterà per sempre come una croce, che non lo aiuterà a ritrovare la libertà e l’inclusione che cerca, perché ancora una volta è solo davanti al nulla.

Dogman
regia Matteo Garrone
soggetto Ugo Chiti, Massimo Gaudioso, Matteo Garrone
sceneggiatura Matteo Garrone, Massimo Gaudioso
con Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi, Francesco Acquaroli, Alida Baldari Calabria, Gianluca Gobbi, Aniello Arena
fotografia Nicolaj Brüel
montaggio Marco Spoletini
scenografia Dimitri Capuani, Giovanna Cirianni
suono Maricetta Lombardo
costumi Massimo Cantini Parrini
produttori Matteo Garrone, Jean Labadie, Jeremy Thomas, Paolo Del Brocco
produzione Archimede, Rai Cinema La Pacte
distribuzione 01 Distribution
paese Italia
lingua originale italiano
colore a colori
anno 2018
durata 102 min.

Pubblicato originariamente su Il Pickwick.

Viviana Calabria

Il confine tra bene e male non è mai così nitido

La commedia di Jean Giraudoux scritta nel 1943 è di grande attualità, si potrebbe dire che ai suoi tempi sia stata premonitrice di eventi che, nel mentre della scrittura, sembrano irreversibili. Da molti definita una favola ecologica, si può di certo dire che, come il presente, non ha un fine lieto. È una storia che, nel dramma sociale che si consuma, inserisce momenti di ironia amara che strappa sulle prime il sorriso, ma che poi si rivela nel suo significato secondo.
La parte dedicata all’ambiente è, invece, marginale: il discorso esiste, è presente e forse per i tempi era anche all’avanguardia, ma non è un aggettivo che inserirei per contraddistinguerla essendoci tanti punti accennati o meglio sviluppati e un tema grande e universale che è quello della lotta tra bene e male e, ancora più interessante, il confine che c’è tra le due facce quando si parla dell’essere umano. Pregi dunque dello spettacolo, ben riuscito anche nell’interpretazione di tutti gli attori, ma ne avrebbe giovato una minore durata perché il messaggio culturale e politico è chiaro sin dall’inizio quindi molte scene e personaggi di contorno non fanno altro che ribadire quanto già detto. La struttura, lineare e chiara tranne in pochi momenti, non restituisce l’umanità del popolo e la lotta contro chi vuole annientarli. Sembra di assistere a un qualcosa di ottimo dal punto di vista tecnico, ma di scarsa empatia per chi guarda.
Scendiamo ora nel dettaglio di queste due ore di spettacolo.

© Simone Di Luca

La scenografia è molto semplice: un tappeto che fa da giardino, tavolini e sedie. Facciamo subito la conoscenza di tre figure in giacca e cravatta, simili in tutto e per tutto a comuni uomini d’affari, seduti al tavolino più appartato: il Presidente (Francesco Migliaccio); il Barone (Mauro Malinverno) e lo Speculatore (Riccardo Maranzana) raccontano la loro tremenda ascesa sempre in onore del profitto a tutti i costi. Questo punto risulta forzato perché sembrano tra loro estranei e ciò che li colloca insieme in quel momento è un mistero. Chiaro, a ogni modo, l’intento di aver bisogno di dare una forma e una sostanza, una faccia, al male. Emblematico e maggiormente d’impatto il racconto dello Speculatore che nella sua carriera si è occupato di sfratti: ricorda in particolare i bambini così attaccati alle loro cose da dovergli spezzare (non lo esplicita se non con un chiaro gesto delle mani) le braccia per staccarli dai giochi e dai letti. Scopriamo finalmente lo scopo di quella triade: fondare di una nuova società che solo e soltanto di profitto si alimenta, con sotterfugi e imbrogli di cui si compiacciono.
Non importano il nome, lo scopo esplicito, la forma di società, meno domande si fanno meglio è per tutti. Un’altra figura, che fino a quel momento era di spalle a bere acqua seduta a un altro tavolino, prende parola. È il Prospettore (Giulio Cancelli), molto simile nell’abbigliamento e nei modi ai tre, che si avvicina mettendo sul tavolo un nome per la società (qui non è chiaro il passaggio dall’essere uno sconosciuto in un bar al ricevere denaro per la sua trovata); poi innesta nel gruppetto di affaristi un’idea, la sua idea: trivellare Parigi, in particolare il quartiere di Chaillot, per estrarre il petrolio e spazzare via la feccia. Intanto, prima e dopo questo momento, altra umanità fa la sua comparsa: Martial il cameriere (Davide Rossi), Irma (Zoe Pernici), il Sordomuto (Jacopo Morra), il Cenciaiolo (Giovanni Crippa) e la Fioraia (Miriam Podgornik), tutti malamente cacciati dai tre. Appare, poi, lei: la pazza di Chaillot. Aurelie (Manuela Mandracchia) vestita di stracci e accompagnata dal suo fido ombrello.
Quando il quartetto di cattivi si allontana, dopo aver minacciato proprio Aurelie di cancellarli dalla terra, inizia a farsi strada il piano per salvare Parigi e il loro microcosmo, simbolo di ogni quartiere e città del mondo che dovrebbe avere la forza di organizzarsi e insorgere, cosa che nei tempi moderni è sempre meno sentita se non in alcune occasioni. Aurelie, ora anziana e probabilmente aristocratica decaduta, vive in un mondo tutto suo dopo essere stata abbandonata dall’amato: non vede i mali del mondo, frequenta le persone del posto che vivono nella semplicità e delle piccole cose belle della quotidianità, le stesse che lei decanta poi a Pierre per convincerlo a non uccidersi.

© Simone Di Luca

È un personaggio, quello del pazzo di quartiere, che fa da sfondo in tante narrazioni e che non è scomparso dalle città, portatore di storie e di una qualche verità. A differenza sua, però, gli altri del popolo hanno ancora i piedi per terra e sono proprio loro a rivelarle il piano dei quattro uomini. Intanto che la sua mente cerca una soluzione, altri personaggi fanno la loro apparizione: una guardia (Riccardo Maranzana) chiamato a gran voce dalla stessa Aurelie che ha appena salvato un uomo che voleva buttarsi dal ponte, Pierre (Emanuele Fortunati). A poca distanza di tempo arriva una bagnina (Miriam Podgornik), emblema dei corsi che anche oggi spuntano come funghi soprattutto dalla Rete e che ti promettono di diventare esperto di tutto in poche lezioni. Convinta di poter salvare Pierre dall’annegamento, anche se in acqua non ci è mai caduto, ripete come una macchina tutte le regole del manuale comprese di numero di pagina in cui sono scritte: anche lei, nonostante il suo ruolo positivo da salvatrice di vite, in fondo cerca solo l’approvazione degli altri imparando tutto a memoria, ma senza saperlo davvero mettere in pratica; c’è una differenza con i quattro affaristi ma qui il confine tra bene e male non è così nitido.
La scena cambia. Il prato viene poggiato su un grande tappeto che identifica l’interno della casa di Aurelie. Scopriamo presto il suo piano grazie alla presenza del Fognaiolo (Jacopo Morra) che mostra alla padrona di casa come aprire e richiudere la botola che porta alle fogne. Giungono poi le due care amiche della donna, Gabrielle (Ester Galazzi) e Constance (Evelyn Famà) e danno vita a un siparietto molto allegro, ma troppo lungo, con tanto di cane impagliato che la sua padrona “finge” di portare con sé per compagnia, pur sapendo che il suo è morto, e la presenza di un uomo misterioso ma invisibile. Tra urla e risate scomposte Aurelie riesce a confidare alle due amiche quello che sta per accadere e decidono insieme di metter su un processo simbolico contro tutti quelli che si vendono al Potere e ai Soldi. Il Cenciaiolo è l’accusato che imbastisce uno dei discorsi dei tre uomini di cui all’inizio, togliendosi a un tratto i suoi cenci e mostrandosi in giacca e cravatta, assolutamente convincente tanto da destare dei dubbi sulla sua vera natura.
Il processo termina con una condanna senza appello, ma ora è la volta di mettere in atto il piano: far credere agli affaristi che le fogne sono un ottimo posto per trivellare, quindi li convince a scendere nella botola e lì li rinchiude. Un gesto che nella sua follia giudicheremmo di bontà e di sicura volontà di salvezza, ma siamo sicuri che sia così facile e netta la divisione?
Un enorme rombo risuona: la bomba è scoppiata ed è stato Pierre a farlo, complice da sempre del male. Quel male che non è scomparso con la morte dei quattro, perché come loro ce ne sono tanti altri in ogni luogo, come dimostrano i cloni sulla scena e il “balletto” con risata finale, mentre il sipario si chiude, del Presidente. Hanno vinto loro.

La pazza di Chaillot
di Jean Giraudoux
adattamento Letizia Russo
regia Franco Però
con Manuela Mandracchia, Giovanni Crippa, Giulio Cancelli, Evelyn Famà, Emanuele Fortunati, Ester Galazzi, Mauro Malinverno, Riccardo Maranzana, Francesco Migliaccio, Jacopo Morra, Zoe Pernici, Miriam Podgornik, Davide Rossi
scene Domenico Franchi
costumi Andrea Viotti
luci Pasquale Mari
musiche Antonio Di Pofi
foto di scena Simone De Luca
produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro di Napoli − Teatro Nazionale
lingua italiano
durata 1h 50’
Napoli, Teatro San Ferdinando, 15 marzo 2022
in scena dal 15 al 20 marzo 2022

Pubblicato originariamente su Il Pickwick.

Viviana Calabria

La Roma di mezzo | La città dei vivi

Il primo pensiero davanti alla pagina bianca di questo articolo è stato: devo parlare di Nicola Lagioia e del libro in sé o del caso Varani? Dove finisce l’uno e inizia l’altro?

Per come la si metta, la storia ci porta indietro di qualche anno, precisamente nel 2016. Siamo nella biglietteria del Colosseo quando del sangue gocciola sulla scrivania di una delle addette: si scoprirà che proviene da un topo. L’accidente è vero, le cronache lo riportano, anche se l’incipit sembra preludere a un classico thriller difatti più di una volta mi sono ritrovata a leggere le vicende con un certo distacco, a dirmi “lo sapevo”, quasi una gara a chi indovina l’assassino. Non so se sia un bene o un male, se la colpa sia mia o dipenda dallo scrittore. Tornando all’inizio, Lagioia col suo incipit compie una scelta furba perché permette di catturare l’attenzione. Furberia o meno, è innegabile che l’intento dell’autore sia anche quello di presentarci il contesto, che non è tanto sfondo quanto personaggio vero è proprio: Roma. C’è la Roma di su, il cielo sugli archi di travertino, le colonne vecchie di duemila anni, la basilica di Massenzio, il Colosseo, e la Roma di giù, i topi, l’immondizia, le file, il traffico, i disservizi. E poi ci sono i gabbiani che sono sia su che giù, che fanno ombra sulla città e non sono un buon presagio. La Roma dei vivi e quella dei morti. E poi c’è la Roma di Mezzo, quella di una famosa inchiesta che coinvolgeva privati e istituzioni: «È la teoria del Mondo di Mezzo, cumpa’, ci stanno i vivi sopra e i morti sotto. Noi siamo nel mezzo perché c’è un mondo, un Mondo di Mezzo, in cui tutti si incontrano tra loro. Nel Mondo di Mezzo tutti si incontrano con tutti. Ci trovi delle persone del sovramondo perché magari hanno interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia dei favori che non può fare nessun altro». A me sembra che questa storia sia proprio lì, in mezzo.

Roma è la città in cui può succedere di tutto e questo omicidio così come è poteva accadere solo qui, dice Lagioia. Ha già visto la fine del mondo questa città e nulla può davvero spiazzare chi la vive. In questo «delirio urbano» sembra inevitabile soccombere a un delirio mentale. Se nella prima parte, la più riuscita a mio parere, ci si concentra molto sulla città – a volte con troppa insistenza concentrando una serie lunga di sensazioni, di immagini del degrado che bene ormai conosciamo –, sul rendere il male qualcosa di concreto, di palpabile, e si presenta il caso Varani, dalla seconda parte si scava più in profondità nei fatti.

Ma quali sono, questi fatti? Tra il 4 e il 5 marzo Luca Varani viene ucciso in un appartamento al decimo piano di Via Igino Giordani, quartiere Collatino. Ad ucciderlo sono Manuel Foffo e Marco Prato. Attraverso interviste ai mandanti, alle famiglie, agli amici e a quanti vicini al caso, Lagioia tenta di ricostruire cosa è successo quella notte ma soprattutto i motivi di quel gesto così estremo e feroce. Che ricerchiamo in fondo tutti, per spiegarci i nostri comportamenti. Veniamo a sapere che l’autore deve scrivere un reportage per un giornale; inizialmente titubante, alla fine accetta il lavoro per un motivo personale, comprensibile ma forse debole. Ma chi sono io per giudicarlo.

Da qui in poi il racconto sfocia troppo spesso in un tono filosofeggiante, con una serie di teorie personali sul male, sullo stesso omicidio, sulla colpa. C’è questo motivo di Roma che torna, fuori luogo adesso, perché ci racconta dello stesso autore e della moglie che si allontanano da Roma, da tutte le contraddizioni e il dolore di quella città ma allo stesso tempo vogliono tornarci, come una calamita. È un qualcosa che stufa perché diventa ancora troppo.
Senza dilungarmi sul resto della storia vorrei porre all’attenzione alcuni spunti di riflessione emersi dalla lettura. Il primo, che ritengo importante, è che nonostante si parli di cronaca nera, Lagioia non offre particolari morbosi. O meglio, non racconta particolari della vicenda mettendovi l’accento come spesso fanno i giornalisti. È indubbio che vengano scandagliate le vite di Luca, Marco e Manuel, il loro passato, ma non c’è ombra di giudizio, di insistenza. Ciò che viene fuori dalle indagini lo troviamo su carta. Quello che si viene a sapere: droga, alcool, omosessualità, relazioni. Sono ricostruzioni che fanno scemare di molto quella palpabilità dell’oscuro che aveva tentato inizialmente di creare l’autore, e la freddezza del racconto non fa empatizzare con la vittima. Con i carnefici, neanche a dirlo. Ma c’è un’altra riflessione interessante, che mai esce dai racconti di cronaca: «Tutti temiamo di vestire i panni della vittima […] È sempre: ti prego, fa’ che non succeda a me. E mai: ti prego, fa’ che non sia io a farlo.»

Parlare di mostro e atti mostruosi è un modo per creare distanze enormi tra noi e loro sul piano emotivo. Ci permette di credere che non potremmo mai fare una cosa del genere e quindi questo porta ad avere paura di subire ma non di agire. In realtà, le zone d’ombra sono in ognuno di noi. Questo ci porta anche ad un’altra riflessione, ovvero i motivi. Da appassionata di psichiatria, di mente, di criminologia sono affascinata proprio dal passato e da cosa succede alle persone per portarle a compiere crimini. Ma serve davvero? O meglio, si può davvero riuscire a individuare quel qualcosa che scatta e si trasforma in orrore? Quelli ricercati in questo libro sono alcuni motivi che effettivamente hanno portato persone incensurate (perché definirle normali mi sembra sbagliato, così come i giornalisti che definiscono onesti lavoratori gli uomini che si macchiano di femminicidio) a uccidere, ma non sono abbastanza e mai lo saranno. Definire romanzo-verità questo racconto è un errore. Comprendere è impossibile.

Articolo scritto per il blog di GoodBook.it.

Viviana Calabria

Nicola Lagioia
La città dei vivi
2020
Einaudi Supercoralli
pp. 472
€ 22,00
ISBN 9788806233334

“Self-made” e il riscatto della donna

Lo dico subito: Self-made: la vita di Madam C. J. Walker non è un prodotto qualitativamente alto, non ne ha la pretesa, ma ha il pregio di raccontare una storia, vera, di un personaggio che ha costruito da sé la sua fortuna e che ha speso il suo tempo a combattere anche per gli altri. E lo ha fatto da donna.

La miniserie di quattro puntate si basa sulla biografia On Her Own Ground di A’Lelia Bundles, pro-pro nipote della protagonista, ed è grazie a lei se il suo esempio di donna rivoluzionaria è giunto sino a noi.

Quanto segue è frutto di lettura e visione, in un intreccio di realtà e (poca) finzione.
“I capelli sono potere”. Sarah Breedlove nasce il 23 dicembre 1867 a Delta, in Louisiana. Quinta di sei figli, i genitori e i fratelli lavoravano come schiavi in una piantagione, nasce libera, cinque anni dopo il Proclama di emancipazione di Abramo Lincoln (il primo ordine esecutivo è del 1862) che decreta di fatto la liberazione degli schiavi dai territori degli Stati Confederati d’America. Lo schiavismo diventa fuorilegge il 18 dicembre 1865.
Sarah vive in una baracca di legno con la famiglia facendo lavori umili fino ai sette anni. La madre muore nel 1872 forse per colera e il padre non molto dopo. Rimasta orfana, viene accolta dalla sorella maggiore e dal marito, il quale la maltratta. Si sposa all’età di quattordici anni per fuggire da una situazione da incubo e partorisce la sua unica figlia. A venti anni rimane vedova e si trasferisce a St. Louis (1882). Qui inizia a lavorare come lavandaia e incontra John Davis e rimane con lui fino al 1903. Il resto, in parte, si ritrova nella serie Netflix anche se con uno sfasamento di date. Siamo nel 1908 a St. Louis. Sarah Breedlove (Octavia Spencer) è una lavandaia “venuta al mondo per lottare”. Lava e strofina tutti i giorni fino a sanguinare, per pochi spiccioli. Il marito, un uomo violento amante dell’alcool, uscito dal carcere la abbandona. Sarah non è una bellezza, ma il suo aspetto è peggiorato a causa della perdita di capelli: è ormai quasi calva a causa della situazione igienica precaria, sembra “un cane rognoso” così si nasconde sotto foulard colorati.
Alla sua porta bussa Addie Monroe (Carmen Ejogo) con la sua crema magica che rinfoltisce i capelli ed è un toccasana per altri problemi legati al cuoio capelluto. La crema fa davvero miracoli e i capelli di Sarah ricrescono. Riacquistata la fiducia in se stessa, libera di sfoggiare la sua chioma, Sarah si propone a Addie come venditrice del suo prodotto perché perfetto esempio delle proprietà della crema. Essendo poi nera, ha certamente più appeal sulle altre donne nere cui il prodotto è destinato, non essendo adatto a ogni tipo di capello. Addie non accetta e Sarah prende di nascosto alcuni vasetti riuscendo a venderli tutti grazie alla sua storia, diremmo oggi un ottimo esempio di storytelling che fa leva su un disagio profondo della comunità a cui si rivolge e offre un aiuto valido. Conosce i bisogni e offre appagamento.
Tornata da Addie con i soldi delle vendite, la reazione della donna è dura e offensiva: “Perfino con il vestito buono della domenica sembri appena uscita da una piantagione”. Nella realtà Sarah viene assunta come agente di vendita da Annie Malone mentre la serie se ne distacca per creare dramma, mostrare con più forza il disprezzo nei confronti dei neri. Nel frattempo Sarah incontra un altro uomo, J. C. Walker (Blair Underwood), un pubblicitario che diventa suo terzo marito stando alla biografia, e decide di creare una sua crema infoltente e vendere per conto proprio. Si trasferisce a Indianapolis, nella realtà si trasferisce qui dopo aver vissuto in altre città, con il compagno, la figlia Lelia (Tiffany Haddish), il nuovissimo marito John e il padre di C. J. (Garrett Morris) per iniziare la produzione della crema in casa. L’inaugurazione del salone casalingo che non vede la partecipazione di alcuno non la scalfisce. Torna in strada come la prima volta per raccontare la sua storia e questa volta veniamo a conoscenza di qualche elemento in più sulla sua infanzia. Sarah comprende bene che l’aspetto fisico ha grande importanza per la rispettabilità di una persona in società, per riuscire ad accedere a lavori e servizi altrimenti preclusi, e che bisogna fare comunità, aiutarsi, elevare una razza perché “se lei è bella lo siamo tutte noi”.

L’impresa si rialza ma il rapporto tra Sarah e C. J. comincia a incrinarsi: lei sogna in grande, è risoluta, autoritaria. C. J. si sente ferito nella sua virilità, viene meno il ruolo dell’uomo che mantiene la famiglia; come gli dirà il padre “un uomo che si rispetti deve essere autonomo, specie se è nero. Non devi prendere mai i soldi da dove prendi lo zucchero”.
In città si trasferisce anche Addie Monroe e apre il suo salone dando inizio a una nuova contesa tra le due donne che viene resa, nella serie, attraverso brevi scene che interrompono la narrazione in cui le due si affrontano su un ring. Un elemento superfluo che sembra più voler movimentare un racconto per forza di cose lineare e senza colpi di scena e stravolgimenti che però banalizza un discorso che avrebbe meritato più spazio.
Con l’incendio della parte della casa utilizzata come fabbrica lo sconforto cresce ma Sarah non si demoralizza. Cerca investitori per acquistare un locale più ampio ma incontra non poche difficoltà. Cerca dunque di prendere contatti con Booker T. Washington e parlare alla convention degli imprenditori neri.
La mancanza di contesto storico e di approfondimento mi spinge a un breve excursus su Booker Taliaferro Washington. Nasce schiavo da madre nera e padre bianco, che non si è preso mai cura di lui. Grazie agli studi diventa presidente del Tuskegee Institute e importante leader per la comunità afroamericana, di lui si diceva fosse un americano alla Casa Bianca. Si è battuto per la sua comunità, per l’ingresso nella società dei neri attraverso il lavoro. Famoso il suo Compromesso di Atlanta di cui la serie riporta un piccolo stralcio ma forse quello maggiormente significativo. Suo soprannome è “l’Accomodatore” perché ha sempre cercato di non arrivare allo scontro con i bianchi. Salta all’occhio l’utilizzo del termine separazione quando bisognerebbe parlare di unione: l’accordo prevede per i neri la segregazione e quindi la separazione sociale e urbana tra bianchi e neri, la rinuncia al diritto di voto e l’istruzione di base gratuita di tipo professionale e industriale.
Tornando alla serie, John, il marito di Lelia, incontra in città Addie che lo invita nel suo salone e lo spinge rivelarle i progetti di Sarah in cambio di soldi: lui, rancoroso nei confronti della famiglia che lo ha accolto e che lo reputa un buono a nulla, cede alla richiesta di Addie. C. J. riesce a ottenere tre biglietti per la convention di Booker e Sarah, unica donna, partecipa ma non riesce a fare il suo intervento in favore del suo progetto e spinge il marito a invitare Booker a cena ma nel pieno della festa in suo onore Sarah capisce che qualcosa non è andato nel verso giusto. Durante la seconda convention Sarah sale sul palco e tiene il suo discorso grazie al sostegno delle altre donne, mogli degli imprenditori presenti: anche in questo caso la forza di Madam sta nella capacità di colpire al cuore del problema, quello dell’identità, dovuto anche a una situazione che vive in prima persona. Le donne vengono relegate in cucina perché giudicate inferiori e adatte solo alla cura della casa e dei figli e come accompagnatrici al braccio in occasioni pubbliche. Sia Booker che gli uomini neri vogliono alzare il proprio rango e farsi riconoscere in quanto uomini con gli stessi diritti e le stesse capacità, ma la condizione delle donne non fa parte della loro rivoluzione. Ogni tentativo di far valere la propria dignità veniva messo a tacere e considerato uno sfogo, quasi un’isteria. Nere o bianche, le donne erano quasi orpelli da mostrare; le nere qualche gradino sotto.
Questa visione delle cose acuisce la distanza tra Sarah e C. J. in quanto “è l’uomo che decide” ma Sarah non si piega. La distanza e le discussioni portano C. J. al tradimento.
Grazie all’aiuto economico delle altre donne della comunità apre la sua fabbrica e dà lavoro a tantissime agenti. Ma ancora non le basta: vuole aprire saloni in tutto il paese e dare la possibilità a tantissime donne di essere autonome e di guadagnare uno stipendio dignitoso. Per lanciare la nuova linea, C. J. inventa la “ragazza Walker” ovvero la ragazza Gibson nera: si tratta del primo standard di bellezza degli Stati Uniti ma non incarna l’ideale di Madam. Tutte sono belle per la loro unicità e non devono somigliare a nessuno standard, specialmente se questo richiama gli ideali dei bianchi.
Se nel primo episodio troviamo le scene sul ring, negli altri ritroviamo il tema del sogno: per esempio quando Madam porta gli investitori a visitare il posto che vorrebbe acquistare e trasformare in fabbrica,  mentre spiega come desidera il progetto si immagina ragazze in divisa che ballano tra i clienti o ancora la ragazza Walker che appare quasi come un fantasma. Questa idea ho pensato potesse provenire da un aneddoto che ho ritrovato nella sua biografia: nel raccontare la sua storia per vendere la crema, Sarah era solita dire di aver sognato un uomo nero che le indicava gli ingredienti da utilizzare per creare il prodotto giusto. Che sia un omaggio a questa particolarità della storia − ma ne dubito − o meno sicuramente è un goffo tentativo di rallegrare ancora una volta la narrazione che non eccelle neanche nella recitazione e nulla può la stessa Octavia Spencer, poco espressiva.
Nuove difficoltà, intrighi e il divorzio non fermano l’ambizione di Madam che si prepara ad aprire nuove sedi. La figlia avrà il suo salone ad Harlem dopo aver lasciato il marito e adotterà una giovane donna a cui è morto da poco il padre, per aiutare la madre e i suoi numerosi figli. Sarah, malata, vuole organizzare una convention con tutte le agenti di vendita e lo fa nella sua nuova villa, di fianco a quella di Rockefeller.

Ne consiglio la visione se interessati a scoprire la storia di Madam C. J. Walker, non avendo a disposizione la biografia tradotta, e passare qualche ora con leggerezza. Spunti di riflessione potrebbero essercene ma è tutto trattato con superficialità e spesso calcando la mano per suscitare empatia, per esempio nel raccontare la relazione della figlia con una ragazza. All’inizio Sarah non approva organizzando a Lilia incontri con uomini facoltosi, ma dopo la notizia della sua malattia comprende l’importanza della libertà di scelta. Nella realtà la figlia avrà altri matrimoni con uomini e nello stesso tempo relazioni con delle donne, senza che questo si rilevi d’intralcio al rapporto o alla carriera della madre.
Ciò che non vien fuori dalla narrazione rendendola quindi manchevole e molto centrata sui soldi e sul rimarcare come la Breedlove sia stata la prima donna milionaria ad aver costruito la sua fortuna senza aiuti, è la sua filantropia. Oltre a essere membro e patrocinatrice di molte associazioni, aiutò economicamente tanti giovani neri del sud sostenendone la formazione. Fu a fianco di Booker e del Tuskegee Institute. Non smise mai di aiutare e lottare, fino alla morte avvenuta a cinquantuno anni. Una donna che si è fatta da sola e che ha aiutato tante a credere in se stesse, a spingere per un riconoscimento identitario dei neri e in particolare delle donne. Una femminista, anche.

Viviana Calabria

Self-made: la vita di Madam C. J. Walker
regia
 Kasi Lemmons, DeMane Davis
soggetto 
A’Lelia Bundles
sceneggiatura 
Nicole Jefferson Asher, A’Lelia Bundles
con 
Octavia Spencer, Kevin Carrol, Carmen Ejogo, Tiffany Haddish, Garrett Morris, Blair Underwood, Sidney Morton, Mark Taylor, J. Alphonse Nicholson, Bill Bellamy, Zahra Bentham, Mouna Traoré
fotografia Kira Kelly
montaggio Kathryn Himoff
musiche Larry Goldings
produttori DeMane Davis, Eric Oberland, lena Cordina
casa di produzione SpringHill Entertainment, Orit Entertainment, Wonder Street, Warner Bros. Television
distribuzione Netflix
paese Stati Uniti d’America
lingua originale inglese
colore a colori
anno 2020
durata 4 puntate da 45 min.

La ribellione delle donne di Roth

Un solo palco per tre storie. Scenografie essenziali che occupano tutta la lunghezza del palcoscenico, divise solo da uno spazio vuoto. Attori che si avvicendano e luci che illuminano ora l’una ora l’altra scena. La scelta di Laura Angiulli permette allo spettatore di non confondere personaggi e trame, avendo ben chiara la divisione anche a livello visivo, e crea, allo stesso tempo, un legame più o meno esplicito tra le storie.

Lucy e le altre porta in scena tre romanzi dello scrittore culto Philip Roth, in particolare Quando lei era buonaPastorale americana e Inganno.
Il primo fil rouge è proprio Roth quindi, e la sua America, il suo sguardo cinico e la precisa e drammatica analisi degli uomini. Bisogna avere conoscenza della sua produzione per sapere che i tre romanzi coprono anni diversi della storia americana, in ordine anni ’40, ’70 e ’90, permettendo quindi uno sguardo ampio all’evoluzione della società (secondo fil rouge, mancato). Nello spettacolo, tuttavia, la regista sceglie di decontestualizzare quasi del tutto la narrazione. Pochi sono i dettagli geografici e temporali in cui collocare le vicende (Guerra del Vietnam), una scelta dettata dalla possibilità di dare un respiro universale alle dinamiche interne e alle tematiche. Il leitmotiv più interessante è però la scelta di portare in scena alcuni dei, pochi, personaggi femminili dei testi di Roth.
Il titolo, è presto detto, si ricollega proprio a quest’ultimo punto. Lucy è l’unico personaggio femminile che abbia sua piena centralità nella grande produzione dello scrittore americano, poi ci sono “le altre” appunto, tra cui Merry e la donna inglese del terzo libro.

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Cominciamo proprio da Lucy: la conosciamo ragazzina, alle prese con il dolore di un padre violento e una madre rassegnata alla vita che ha scelto: nessuna ribellione, accettazione servile di un destino scritto. È lei a fare la parte del genitore, cercando con rabbia di scuotere la madre, chiedendo aiuto ai nonni, seduti a osservare la scena: lei in disparte, mai troppo coinvolta, lui dall’alto, come un giudice non in grado di porgere una mano. Giudizi senza compassione e partecipazione emergono non solo dalla disposizione sulla scena ma con un tono di voce sempre pacato di lui (Gennaro Maresca), quasi monocorde, e stizzito di lei (Caterina Pontrandolfo), che non ci si aspetta davanti al dolore di parte della famiglia.
La madre (una brava Federica Aiello), nelle sue brevi entrate in scena, è vestita di nero e con una certa eleganza porta il lutto per la morte non di un corpo, che rimane ferito ma vivo, ma per l’anima e la libertà proprie. Composta, quasi fredda, morta. È possibile che il lutto riguardi anche quel marito assente e qui la domanda si fa universale: perché soccombere?
L’interrogativo si lega alle vicende successive. Lucy, nonostante i consigli dell’amica (Fabiana Spinosa in una piccola parte), si lascia abbindolare da Roy (un Paolo Aguzzi scanzonato che funziona meno nei momenti più drammatici, mi ha ricordato il Danny di Grease) e rimane incinta. Inizia la loro vita insieme, da genitori, e la convivenza non va secondo i piani: è insoddisfatta e molto dura con lui che invece di cercare un lavoro insegue i suoi sogni e si lascia manipolare da uno zio fedifrago (Carlo Di Maio risulta più convincente nella parte finale, quando rivela la sua vera personalità). Quando lui torna dalla famiglia portandosi il bambino, Lucy implora di vederlo, di riprovare a costruire una famiglia ora che la bambina che tanto desiderava è nata. Si lascia andare sul suolo, coperta dalla neve.
Lucy, come la madre, nell’interpretazione di Alessandra D’Elia che rivela una figura più capricciosa che in conflitto, ha lasciato che il destino decidesse per lei. La ragazzina paladina della giustizia soccombe, come la madre. Salvare il salvabile, essere ligia più che al dovere, alla società che ti vuole moglie e mamma. Il fallimento non è contemplato.

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Merry è una delle figure femminili più conosciute di Roth perché personaggio del romanzo considerato suo capolavoro e portato al cinema nel 2016 con la regia di Ewan McGregor, anche attore nella parte del padre, “Lo Svedese”, Seymour Levov.
Poco si sa della vicenda perché anche qui si cerca di render più protagonista la donna a differenza del romanzo. Merry è un’adolescente di una famiglia borghese, una di quelle perfette da incorniciare. Infuria la Guerra del Vietnam e i disordini razziali diventano realtà. In Merry cresce una rabbia nei confronti di una guerra che non fa sconti e di chi, come il padre, rimane nella sua casa perfetta senza combattere. Questa rabbia prende il sopravvento e lei decide di unirsi a un’organizzazione politica estremista. Si renderà complice di un attentato in cui moriranno alcune persone e deciderà di scappare. Lo Svedese passerà anni a cercarla, ma riusciranno a ricongiungersi solo per poco.
Riuscitissima è la parte di Jerry Levov (Luciano Dell’Aglio), zio di Merry, che ha sempre vissuto all’ombra di Seymour ma che ama moltissimo. È molto duro con il fratello per non aver tenuto sotto controllo la figlia, verso cui nutre un vero odio, di aver creduto che la sua vita fosse perfetta e non ci fosse bisogno di lui. Il momento più coinvolgente è verso la fine della storia, in cui Jerry parla allo Svedese: “Ma se mi stai dicendo la verità, che Merry è morta, è la più bella notizia che io abbia mai sentito. Nessun altro ti parlerà così. Gli altri ti offriranno la loro compassione. Ma io sono cresciuto con te. Io ti parlo senza peli sulla lingua. La cosa migliore, per te, è che sia morta. Merry non ti apparteneva. Non apparteneva a nulla che si potesse identificare con te. Non apparteneva a nulla che si potesse identificare col tuo mondo”.
Nessuna remora a creare un personaggio che non ha paura di mostrare l’oscurità dell’animo umano.
La parte di Merry è affidata a Caterina Spadaro: balbetta, e forse questo suo difetto che toglie un po’ di “perfezione” alla sua persona la avvicina a una battaglia in cui può sentirsi parte di qualcosa, ma che in scena viene interpretato in maniera un po’ caricaturale, ponendo troppo l’accento sul difetto di pronuncia e su dei modi di fare da bimba capricciosa. Lo Svedese (Antonio Marfella) sulla scena convince più con l’espressività che con la voce: lo sguardo fermo riesce dove i toni vocali possono apparire leggermente forzati.
Eccola la seconda donna, una ribelle che, come Lucy, si autodistruggerà.

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Ancora un matrimonio e una relazione d’amore nella rappresentazione tratta da Inganno. Protagonisti uno scrittore americano e una donna di cui non si conosce il nome. Lui è seduto a un tavolino a scrivere, lei si sposta nervosamente: stesa o seduta su un lettino, o ancora seduta a terra. Si tratta di un dialogo serrato tra i due, pochi elementi di contesto. Tra una battuta e l’altra scopriamo che sono due amanti. Lei (Fabiana Fazio), opta per un’espressione sempre uguale a se stessa così come il tono di voce, conferendo un’idea di piattezza con la sua interpretazione al personaggio di giovane donna imprigionata in un matrimonio insoddisfacente, ma nessun elemento ci aiuta a comprenderne le ragioni e i motivi del suo restare, a differenza di Lucy.
Pensi che servirebbe se andassi da uno psichiatra? Perché quello che ancora non ho capito è cosa voglio veramente.”
Una forma di ribellione diversa la sua: avere una relazione parallela per sfuggire a una quotidianità desolante, che sembra trasformarsi più in una seduta psicologica che in un incontro tra amanti, almeno sulla scena.
Si attesta su un registro più naturale Giovanni Battaglia nella parte di uno scrittore dedito all’ascolto, di poche parole, perché interessato a rubare materiale dalle persone che incontra per poi trasporlo nei suoi libri. Un’interpretazione che si avvicina al personaggio di Roth, in questo caso suo alter ego. Ed è quello che in effetti fa in scena, come nel romanzo: sta scrivendo un libro che è poi il resoconto delle loro conversazioni.
Il finale spiazza: il dialogo si trasforma in una pacata discussione tra lui e la moglie, la stessa attrice con una parrucca bionda, che dice di aver letto i suoi taccuini e lo accusa di tradimento. Lui tenta così di convincerla, con poche ma scelte parole, che si tratta di invenzioni, di una relazione immaginaria, materiale del libro che sta scrivendo.

Portare in scena dei romanzi come quelli di Philip Roth non è cosa semplice, tanto più se li si estrapola dal loro contesto di origine ma soprattutto se non viene rimarcata la capacità analitica dell’autore di tratteggiare gli uomini, con violenza e molto cinismo. Nella trasposizione, necessariamente, si perde molto, ma sperimentare non è un male. Un plauso alla regista e agli attori tutti.
Leggete Roth.

Lucy e le altre
da
 Philip Roth
drammaturgia e regia Laura Angiulli
con Paolo Aguzzi, Federica Aiello, Giovanni Battaglia, Luciano Dell’Aglio, Alessandra D’Elia, Carlo Di Maio, Fabiana Fazio, Antonio Marfella, Ginestra Paladino, Caterina Pontrandolfo, Caterina Spadaro, Fabiana Spinosa
progetto luci Cesare Accetta
impianto scenico Rosario Squillace (con la partecipazione degli allievi del biennio di scenografia teatrale dell’Accademia di Belle Arti di Napoli)
illuminotecnica Lucio Sabatino, Luca Sabatino
assistente Martina Gallo
aiuto macchinista Saman Munasinha Mudyanselage
direttore di scena Clelio Alfinito
collaborazione alla ricostruzione storica Lavinia D’Elia
foto di scena Ivan Nocera
produzione Teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo
lingua italiano
durata 1h 30’
Napoli, Galleria Toledo, 26 ottobre 2021
in scena dal 22 al 31 ottobre 2021

Articolo originale uscito su Il Pickwick.