“Solaris”. Le nostre colpe, il nostro passato

Confrontarsi con un testo importante della letteratura, da cui sono stati tratti due film, e rimaneggiarlo per il teatro non è cosa semplice. Stiamo parlando di Solaris, romanzo di Stanislaw Lem pubblicato nel 1961, conosciuto soprattutto per il film di Tarkovsky del 1972 e riproposto in un remake da Soderbergh nel 2002. Rifacimenti, reinterpretazioni, teorie hanno permesso all’opera di vivere oltre se stessa e creare materiale per continuare a riflettere. Non è necessaria una disamina sul genere fantascientifico cui appartiene il testo (serie A, serie B) perché è lui stesso a parlare e mostrare cosa c’è oltre l’elemento che lo rende di genere e fa storcere il naso a chi non ne è attratto. Però tenetelo a mente. La domanda che invece spesso ci si pone è: perché riproporre un testo di tanti anni fa?
La risposta del regista Andrea De Rosa potrebbe essere questa: “Ho letto Solaris durante la quarantena e mi aveva molto colpito questa idea che gli esseri umani potessero essere il virus e che il pianeta fosse costretto a reagire e a difendersi dalla loro presenza. Solaris è una vera e propria creatura, un pianeta vivente che attraverso il suo immenso oceano cerca di comunicare con gli uomini attraverso i loro desideri, che riesce a materializzare sotto forma di fantasmi”.

L’arte, un esempio è il campo letterario che ha visto la pubblicazione di saggi e romanzi sul tema o la riproposta di vecchi testi come La peste di Camus (tra i più venduti durante il lockdown), si è lasciata influenzare dall’emergenza sanitaria: giusto o sbagliato che sia l’importante è che non diventi l’unico punto di vista da cui osservare e analizzare il mondo. Ha portato di certo all’attenzione temi e problematiche dell’essere umano e del pianeta, ma verrebbe da domandarsi perché attendere una catastrofe per parlarne: l’arte non ha da sempre tentato di mettere in evidenza le contraddizioni del nostro mondo? Forse è questo, oltre al messaggio di Solaris, il vero motivo che dovrebbe essere (e che forse c’è) alla base della scelta del regista e di David Greig, autore del testo tradotto per l’Italia da Monica Capuani: il senso dell’arte. L’identificazione con l’oggi diventa solo una parte del tutto, un immediato punto di partenza che inevitabilmente è divenuto riferimento primario.
Ma lasciamo da parte le domande senza risposta e immergiamoci nello spettacolo.

L’ambientazione è riconoscibile appena si entra in sala: siamo al cospetto di una navicella spaziale costituita da una grossa pedana nera inclinata, un letto nero e in basso, a livello delle poltrone (le file sono state ridotte per avere lo spazio giusto e un po’ di distanza tra attori e pubblico) pochi elementi a indicare due stanze. Veniamo accolti da due interpreti in posizione, tanto da pensare lo spettacolo sia già iniziato. In quei minuti è possibile mettere a fuoco una televisione che manda programmi in bianco e nero che, sembra, una figura completamente coperta da una sorta di mantello che stia guardando, immobile. Dall’altro lato ad attirare l’attenzione è invece un passeggino, anch’esso nero.
Le luci si abbassano, silenzio.
“Chi sei tu?”. Sulla navicella spaziale che orbita intorno a Solaris arriva Kris Kelvin, psicologa e scienziata. La vediamo entrare da una botola che crea l’ingresso circolare della navicella. Si libera della tuta e si guarda intorno, incerta. Non la accoglie nessuno.
“Chi sei tu?”. La voce arriva da lontano: è Snow, uno dei tre scienziati della missione. È in evidente stato di confusione, non si lascia convincere dalla risposta di Kelvin, nome cognome professione. Al principio non comprendiamo il motivo di questa insistenza, di questa domanda-mondo la cui importanza si rivela poco a poco. Sartorius, l’altra scienziata, cammina per la sua stanza girando intorno al passeggino, a scatti, senza emozione alcuna. Ogni tanto cerca di calmare un bambino che piange, sshh. Gibarian, il terzo scienziato e maestro di Kris è morto: secondo Snow si è ucciso, Sartorius crede sia suicidio, aveva un cancro.
Cosa succede su quella navicella?
L’atmosfera di tensione si avverte grazie all’oscurità, a quel nero predominante che riceve luce solo quando gli attori parlano. A donare un po’ di luce è una specie di oblò della navicella, che funge anche da coperchio della botola, da cui è possibile vedere Solaris. Le immagini sono splendide, filmati tratti da materiali d’archivio, studiati perché possano ricordare le descrizioni del romanzo: la luce blu e la luce rossa che si alternano in queste orbite che il pianeta compie formando un otto, o il simbolo dell’infinito, contro ogni legge della fisica. Kris (che nel romanzo è un uomo) viene messa in guardia, cose strane accadono. Quando si addormenta una donna entra nella navicella e le si stende di fianco. È Ray, la donna che ha amato. È impossibile che sia lì eppure le somiglia così tanto. È un sogno? Sono reali, sembrano reali. Si tratta dei “visitatori”, questo il nome che hanno pensato per loro. Vengono da Solaris, quest’immensa distesa di mare, almeno a prima vista: all’inizio mandava loro degli oggetti, poi dei mostri.
Anche la bambina che piange viene da lì, l’ha trovata Gibarian. Ma non parlano.
“Lei parla”.
Ray parla. Ha con sé uno zaino con dei cd che fa ascoltare a Kris, sono alcune delle canzoni che hanno ascoltato
insieme. Ha anche un libro: Cime tempestose, il romanzo preferito di Kris. Provano a farle delle domande, carpire
informazioni. “Non lo so” ripete spesso. Non ricorda la sua vita, non conosce i titoli delle canzoni, il tipo di musica, dove si trova. Sa di essere australiana ma non conosce il nome della spiaggia più grande del suo paese. Accenna ad alcuni momenti vissuti con Kris, ma nulla di più. A tratti appare spaventata e confusa, in altri arrogante quando si rivolge a Snow.

Nel breve tempo dello spettacolo appaiono chiari due processi. Da una parte Ray alterna confusione a consapevolezza: tenta di uccidersi, di tornare al suo oceano e viene recuperata dagli scienziati. La seconda volta, invece chiede a Snow di farla sparire per sempre, distruggerla. Sa che il suo posto non è lì, non è umana, non è Ray.
Kris, invece, dalla consapevolezza rasenta quasi la follia: in due brevi monologhi scopriamo che Ray è stata la sua compagna fino a che non si sono separate, forse perché lei ha preferito la carriera. Un giorno un’amica le dice che è morta, risucchiata da un mulinello in mare, lei che era una nuotatrice provetta oltre che oceanografa. Non può essere, si è lasciata andare, è colpa sua. Ora che è lì non può lasciarla di nuovo, qualunque sia la sua natura. Chiede ai colleghi di rimanere, di non abbandonare la missione perché hanno stabilito finalmente un contatto con Solaris, possono studiare, scoprire, analizzare il pianeta. Ma i viveri scarseggiano e la situazione non è sostenibile.
Kris decide di rimanere. “Inventatevi quello che volete ma lasciatemi qua” perché il sogno è più bello della realtà.
Non siamo in grado di spiegare Solaris. Gibarian (Umberto Orsini) che appare solo in video, all’interno dell’occhiofinestra, attraverso dei messaggi lasciati proprio a Kris la definisce “una grande grossa palla di coscienza”. È un pianeta senziente, un bambino curioso che cerca il contatto con l’uomo inviando i visitatori. Come se leggesse nella loro mente riuscendo a creare qualcosa di simile. Ma perché lo fa e soprattutto ne è consapevole? Difficile dire se si tratti di una possibilità di redenzione o una condanna a rivivere sempre le proprie colpe. Molto bello, a proposito, quanto dice Sartorius: paragona il pianeta a un Dio fallibile, onnisciente e onnipresente ma limitato, che non si accorge delle conseguenze dei suoi atti. Da qui dunque l’incognita sul senso dei visitatori: la bimba nel passeggino che secondo Gibarian è un messaggio di speranza, diventa per Sartorius un incubo perché crede sia la figlia di sei anni che ha perso.
Snow riceve la visita della madre morta, la figura incappucciata e quasi mummificata sulla scena. Gibarian, invece, ha ricevuto come visitatore il cancro, causa della morte della madre.
È un confronto costante con il sé questo testo, è tanto altro dalla semplice fantascienza. Un confronto con le proprie colpe, il proprio passato e le conseguenze che le scelte hanno su noi stessi e sugli altri. Snow e Sartorius scelgono di andare avanti, Kris di soccombere, di lasciarsi travolgere perché lì fuori, per lei, non è vita. È chiaro che l’altro tema importante riguarda la volontà di conquista dell’uomo, e da qui il riferimento al virus. Il contatto con Solaris non è un semplice interesse scientifico ma vuole far raggiungere all’uomo una conoscenza superiore delle cose anche a discapito dell’equilibrio del pianeta; inoltre quest’intromissione può portare a un controllo e a un addomesticamento dell’Altro inteso come altro mondo, altro essere. Il discorso diventa quindi universale se a Solaris diamo di volta in volta una diversa connotazione.

La regia di De Rosa ha apportato alcuni cambiamenti, come la coppia Kelvin/Rey, formata da due donne: non è chiaro il motivo, forse per dare una spinta alle questioni queer odierne o per aumentare la parte femminile dell’equipaggio (già Greig lo aveva fatto col personaggio di Sartorius). Qualcuno ha ipotizzato che sia stata una scelta funzionale al testo perché le due donne diventano specchio l’una dell’altra, ma credo che il tema della colpa sia già perfetto per costringere qualcuno a analizzare se stesso. Un altro punto meno riuscito riguarda i passaggi degli attori da stanza a stanza: non ci sono porte che possano mostrare l’azione quindi alcune volte sembra stiano tutti insieme in un unico spazio, altre volte che siano invece separati ma con la possibilità di sentirsi, altre volte ancora sembrano isolati. Dal punto di vista recitativo non tutte le prove risultano allo stesso livello e lo spettacolo dà una sensazione di distacco e freddezza che l’atmosfera e la drammaticità non riescono a colmare: Snow (Werner Waas) ha un tono piatto e incolore in quasi tutte le scene che lo riguardano, la sua confusione si palesa soltanto all’inizio, persino durante l’interrogatorio a Ray non si trova urgenza e curiosità nella sua voce. Sartorius (Sandra Toffolatti) ha una voce molto calda e coinvolgente molto bella da ascoltare quando canta, ma a me la sua recitazione pare monocorde: anche quando rivela di sua figlia. Un plauso alle due attrici più giovani, Federica Rosellini e Giulia Mazzarino (in ordine Kris e Ray) che rendono bene i loro personaggi e la gamma di emozioni richieste; è soprattutto Ray a riuscire in questo passando dalla confusione all’arroganza alla paura in poche battute. L’adattamento di Greig in definitiva funziona perché riesce a dare un’idea del mondo inventato da Lem e dalle universali e attuali tematiche che ne hanno fatto un testo classico.
“Noi uomini partiamo per il cosmo pronti a tutto: alla solitudine, alla lotta, al martirio e alla morte. Anche se per pudore non lo proclamiamo a gran voce, spesso siamo convinti di essere persone straordinarie. In realtà quello che vogliamo non è conquistare il cosmo, ma estendere la Terra fino alle sue frontiere. Certi pianeti saranno desertici come il Sahara, altri glaciali come il polo o tropicali come la giungla brasiliana. Siamo nobili e umanitari, non vogliamo asservire altre razze ma solo trasmettere loro i nostri valori e, in cambio, impadronirci del loro patrimonio. Ci consideriamo i cavalieri del Santo Contatto, e questa è la menzogna numero due: la verità è che cerchiamo soltanto la gente. Non abbiamo bisogno di altri mondi, ma di specchi. Degli altri mondi non sappiamo che farcene, quello che abbiamo ci basta e ci avanza. (…). Quello che volevamo: il contatto con un’altra civiltà. E adesso che ce l’abbiamo, vediamo che si tratta solo della nostra mostruosa bruttezza, della nostra follia e della nostra vergogna ingrandite al microscopio!” (Stanislaw Lem, Solaris).


Solaris
di David Greig
nella traduzione di Monica Capuani
tratto dall’omonimo romanzo di Stanislaw Lem
regia Andrea De Rosa
con Federica Rosellini, Giulia Mazzarino, Sandra Toffolatti, Werner Waas
e con (in video) Umberto Orsini
filmati tratti dai materiali d’archivio di European Space Agency
concessi da Esa/Nasa
scene e costumi Simone Mannino
disegno luci Pasquale Mari
progetto sonoro G.U.P. Alcaro
video D-Wok
foto di scena Federico Pitto
produzione Teatro di Napoli-Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova
Napoli, Teatro Mercadante, 18 novembre 2021
in scena dal 17 al 28 novembre 2021

Pubblicato originariamente su Il Pickwick.

Viviana Calabria

Coro di voci per “Cuore di cane”

La lotta contro la censura, qualunque essa sia e sotto qualunque potere, è mio dovere, così come gli appelli alla libertà di stampa. Nella vasta arena della letteratura russa, in URSS io ero l’unico lupo. Mi hanno consigliato di tingermi il pelo. Consiglio assurdo. Sia tinto sia tosato, un lupo non assomiglierà mai a un barboncino.


Nella penombra del teatro, improvvisa irrompe una voce dal marcato accento russo. È Michail Afanas’evič Bulgakov, l’autore di grandi opere come Il Maestro e Margherita e Cuore di cane. Grande autore inviso al regime di Stalin, messo a tacere perché portatore di verità sulle contraddizioni e la corruzione della società, arriverà a desiderare di essere esiliato dal suo Paese perché “uno scrittore che tace non è un vero scrittore”.

Il sipario si apre e sulla scena appare una donna immersa nel nero, con una luce azzurra che arriva dal fondo e la neve che cade dall’alto. Porta una gonna lunga, degli stivali e una camicia, tutto di un diversa sfumatura di bianco. I capelli adornano una maschera, anch’essa bianca, che lascia scoperta solo la bocca. Dal microfono si inizia a udire un lamento, parole, sconnesse, ululati mentre di lato sta e suona l’amplificazione sonora di Tommaso Qzerty Danisi, che sarà perfetto nel ruolo perché riuscirà a dare ritmo alla rappresentazione, che altrimenti ne risentirebbe.
Ben presto appare chiaro che sul palco, a interpretare i personaggi, c’è la sola Licia Lanera. La sua figura e la sua voce modulata in base ai personaggi che fa parlare, sono protagoniste assolute della scena, in un monologo che diventa un coro. Una prova d’attrice di grande livello, che però catalizza l’attenzione su di lei adombrando il testo. Ed è qui che diventa chiaro che il bianco dell’abbigliamento e la maschera stiano a indicare neutralità: l’attrice si fa pura perché possa essere chiunque desideri, senza perdere però le sue caratteristiche femminili.
La rappresentazione si svolge in un piccolo spazio di palco, dinanzi al tavolo con tutta la strumentazione sonora, o su un piccolo rialzo dove sono posizionate una poltrona e una lampada.

La vicenda, grottesca e favolistica, racconta di Filipp Filippovič, un ricco scienziato che trapianta organi animali nei propri pazienti per donare loro l’eterna giovinezza, che un giorno salva un cane in fin di vita tenendolo con sé, dandogli il nome di Pallino e decidendo di utilizzarlo come cavia: impianta nel suo corpo ipofisi, una “camera chiusa che determina un dato tipo”, e gonadi di un uomo di venticinque anni che è stato assassinato poco tempo prima. Contrariamente alle aspettative il cane non solo sopravviverà ma si trasformerà in un uomo a tutti gli effetti, trasformazione che verrà narrata dall’attrice con l’ausilio di un quaderno messo sulla scena, con la copertina rossa e Cuore di cane ben in vista, “che però rincorre ancora i gatti”.
Il tema principale di Bulgakov − una forte critica al governo e alla sua volontà di cambiare radicalmente la società − non sempre riesce a imprimersi con forza in questa rivisitazione. Ben riuscite le caratterizzazioni dei personaggi “di passaggio”: un anziano cliente del dottore, dal riconoscibile accento milanese e che desidera ringiovanire per poter adescare giovani fanciulle, viene reso anche viscido grazie a un modo particolare di risucchiare mentre parla; il capo del palazzone in cui vive Filippovič è identificabile nel suo lessico romanesco e lo stesso scienziato, con il suo dire educato e pacato, rientra perfettamente nell’immaginario borghese così come rientra nella figura del ricco e privilegiato che crede di potere tutto. Perfino creare un uomo perfetto. Di minore potenza risulta invece la figura di Pallino, che dovrebbe incarnare tutti i vizi dell’uomo russo proletario, caratterizzato da un linguaggio ricco di imprecazioni, ma le cui disavventure assurde e grottesche vengono qui messe da parte.
Con Licia Lanera è la disumanizzazione dell’uomo a farla da padrone e, dunque, la figura dello scienziato. I pazienti sono una conseguenza di un mondo votato all’apparenza, alla fugacità non della vita ma della bellezza esteriore e dei piaceri più bassi.
L’uomo ricco e borghese sa di andare contro la morale e il buon senso, sa di operare una forzatura della natura stessa soltanto per dimostrare superiorità intellettiva, manifestando un potere assoluto sulla vita stessa. Ben presto giungerà in tutta la sua brutalità la consapevolezza dello sbaglio compiuto e la comprensione che la smania di andare oltre il possibile e il lecito non ha portato all’umanizzazione del cane. “Non ce la faccio più” si ripeterà spesso Filippovič. E da qui la scelta più giusta: riportare Pallino alle sue sembianze iniziali, farlo tornare un cane con un cuore di cane. Ormai “non ha più un cuore di cane, ma un cuore di umano, il più lurido che esista in natura”.
Buio.
Luce azzurra. Ombra di un uomo che ulula.

Cuore di cane
di Michail Bulgakov
adattamento e regia Licia Lanera
con Licia Lanera, Tommaso Qzerty Danisi
sound design Tommaso Qzerty Danisi
luci Vincent Longuemare
costumi Sara Cantarone
maschera Sarah Vecchietti
assistente alla regia Annalisa Calice
tecnici di palco Cristian Allegrini, Martin Palma
organizzazione Antonella Dipierro
foto di scena Manuela Giusto
produzione Compagnia Licia Lanera / TPE – Teatro Piemonte Europa
con il sostegno di MiBACT e Regione Puglia e dell’Assessorato all’Industria Turistica e Culturale, Gestione e
Valorizzazione dei Beni Culturali
lingua italiano
durata 1h 15′
Napoli, Piccolo Bellini, 30 ottobre 2018
in scena dal 30 ottobre al 4 novembre 2018

Pubblicato originariamente su Il Pickwick.

Viviana Calabria

La ribellione delle donne di Roth

Un solo palco per tre storie. Scenografie essenziali che occupano tutta la lunghezza del palcoscenico, divise solo da uno spazio vuoto. Attori che si avvicendano e luci che illuminano ora l’una ora l’altra scena. La scelta di Laura Angiulli permette allo spettatore di non confondere personaggi e trame, avendo ben chiara la divisione anche a livello visivo, e crea, allo stesso tempo, un legame più o meno esplicito tra le storie.

Lucy e le altre porta in scena tre romanzi dello scrittore culto Philip Roth, in particolare Quando lei era buonaPastorale americana e Inganno.
Il primo fil rouge è proprio Roth quindi, e la sua America, il suo sguardo cinico e la precisa e drammatica analisi degli uomini. Bisogna avere conoscenza della sua produzione per sapere che i tre romanzi coprono anni diversi della storia americana, in ordine anni ’40, ’70 e ’90, permettendo quindi uno sguardo ampio all’evoluzione della società (secondo fil rouge, mancato). Nello spettacolo, tuttavia, la regista sceglie di decontestualizzare quasi del tutto la narrazione. Pochi sono i dettagli geografici e temporali in cui collocare le vicende (Guerra del Vietnam), una scelta dettata dalla possibilità di dare un respiro universale alle dinamiche interne e alle tematiche. Il leitmotiv più interessante è però la scelta di portare in scena alcuni dei, pochi, personaggi femminili dei testi di Roth.
Il titolo, è presto detto, si ricollega proprio a quest’ultimo punto. Lucy è l’unico personaggio femminile che abbia sua piena centralità nella grande produzione dello scrittore americano, poi ci sono “le altre” appunto, tra cui Merry e la donna inglese del terzo libro.

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Cominciamo proprio da Lucy: la conosciamo ragazzina, alle prese con il dolore di un padre violento e una madre rassegnata alla vita che ha scelto: nessuna ribellione, accettazione servile di un destino scritto. È lei a fare la parte del genitore, cercando con rabbia di scuotere la madre, chiedendo aiuto ai nonni, seduti a osservare la scena: lei in disparte, mai troppo coinvolta, lui dall’alto, come un giudice non in grado di porgere una mano. Giudizi senza compassione e partecipazione emergono non solo dalla disposizione sulla scena ma con un tono di voce sempre pacato di lui (Gennaro Maresca), quasi monocorde, e stizzito di lei (Caterina Pontrandolfo), che non ci si aspetta davanti al dolore di parte della famiglia.
La madre (una brava Federica Aiello), nelle sue brevi entrate in scena, è vestita di nero e con una certa eleganza porta il lutto per la morte non di un corpo, che rimane ferito ma vivo, ma per l’anima e la libertà proprie. Composta, quasi fredda, morta. È possibile che il lutto riguardi anche quel marito assente e qui la domanda si fa universale: perché soccombere?
L’interrogativo si lega alle vicende successive. Lucy, nonostante i consigli dell’amica (Fabiana Spinosa in una piccola parte), si lascia abbindolare da Roy (un Paolo Aguzzi scanzonato che funziona meno nei momenti più drammatici, mi ha ricordato il Danny di Grease) e rimane incinta. Inizia la loro vita insieme, da genitori, e la convivenza non va secondo i piani: è insoddisfatta e molto dura con lui che invece di cercare un lavoro insegue i suoi sogni e si lascia manipolare da uno zio fedifrago (Carlo Di Maio risulta più convincente nella parte finale, quando rivela la sua vera personalità). Quando lui torna dalla famiglia portandosi il bambino, Lucy implora di vederlo, di riprovare a costruire una famiglia ora che la bambina che tanto desiderava è nata. Si lascia andare sul suolo, coperta dalla neve.
Lucy, come la madre, nell’interpretazione di Alessandra D’Elia che rivela una figura più capricciosa che in conflitto, ha lasciato che il destino decidesse per lei. La ragazzina paladina della giustizia soccombe, come la madre. Salvare il salvabile, essere ligia più che al dovere, alla società che ti vuole moglie e mamma. Il fallimento non è contemplato.

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Merry è una delle figure femminili più conosciute di Roth perché personaggio del romanzo considerato suo capolavoro e portato al cinema nel 2016 con la regia di Ewan McGregor, anche attore nella parte del padre, “Lo Svedese”, Seymour Levov.
Poco si sa della vicenda perché anche qui si cerca di render più protagonista la donna a differenza del romanzo. Merry è un’adolescente di una famiglia borghese, una di quelle perfette da incorniciare. Infuria la Guerra del Vietnam e i disordini razziali diventano realtà. In Merry cresce una rabbia nei confronti di una guerra che non fa sconti e di chi, come il padre, rimane nella sua casa perfetta senza combattere. Questa rabbia prende il sopravvento e lei decide di unirsi a un’organizzazione politica estremista. Si renderà complice di un attentato in cui moriranno alcune persone e deciderà di scappare. Lo Svedese passerà anni a cercarla, ma riusciranno a ricongiungersi solo per poco.
Riuscitissima è la parte di Jerry Levov (Luciano Dell’Aglio), zio di Merry, che ha sempre vissuto all’ombra di Seymour ma che ama moltissimo. È molto duro con il fratello per non aver tenuto sotto controllo la figlia, verso cui nutre un vero odio, di aver creduto che la sua vita fosse perfetta e non ci fosse bisogno di lui. Il momento più coinvolgente è verso la fine della storia, in cui Jerry parla allo Svedese: “Ma se mi stai dicendo la verità, che Merry è morta, è la più bella notizia che io abbia mai sentito. Nessun altro ti parlerà così. Gli altri ti offriranno la loro compassione. Ma io sono cresciuto con te. Io ti parlo senza peli sulla lingua. La cosa migliore, per te, è che sia morta. Merry non ti apparteneva. Non apparteneva a nulla che si potesse identificare con te. Non apparteneva a nulla che si potesse identificare col tuo mondo”.
Nessuna remora a creare un personaggio che non ha paura di mostrare l’oscurità dell’animo umano.
La parte di Merry è affidata a Caterina Spadaro: balbetta, e forse questo suo difetto che toglie un po’ di “perfezione” alla sua persona la avvicina a una battaglia in cui può sentirsi parte di qualcosa, ma che in scena viene interpretato in maniera un po’ caricaturale, ponendo troppo l’accento sul difetto di pronuncia e su dei modi di fare da bimba capricciosa. Lo Svedese (Antonio Marfella) sulla scena convince più con l’espressività che con la voce: lo sguardo fermo riesce dove i toni vocali possono apparire leggermente forzati.
Eccola la seconda donna, una ribelle che, come Lucy, si autodistruggerà.

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Ancora un matrimonio e una relazione d’amore nella rappresentazione tratta da Inganno. Protagonisti uno scrittore americano e una donna di cui non si conosce il nome. Lui è seduto a un tavolino a scrivere, lei si sposta nervosamente: stesa o seduta su un lettino, o ancora seduta a terra. Si tratta di un dialogo serrato tra i due, pochi elementi di contesto. Tra una battuta e l’altra scopriamo che sono due amanti. Lei (Fabiana Fazio), opta per un’espressione sempre uguale a se stessa così come il tono di voce, conferendo un’idea di piattezza con la sua interpretazione al personaggio di giovane donna imprigionata in un matrimonio insoddisfacente, ma nessun elemento ci aiuta a comprenderne le ragioni e i motivi del suo restare, a differenza di Lucy.
Pensi che servirebbe se andassi da uno psichiatra? Perché quello che ancora non ho capito è cosa voglio veramente.”
Una forma di ribellione diversa la sua: avere una relazione parallela per sfuggire a una quotidianità desolante, che sembra trasformarsi più in una seduta psicologica che in un incontro tra amanti, almeno sulla scena.
Si attesta su un registro più naturale Giovanni Battaglia nella parte di uno scrittore dedito all’ascolto, di poche parole, perché interessato a rubare materiale dalle persone che incontra per poi trasporlo nei suoi libri. Un’interpretazione che si avvicina al personaggio di Roth, in questo caso suo alter ego. Ed è quello che in effetti fa in scena, come nel romanzo: sta scrivendo un libro che è poi il resoconto delle loro conversazioni.
Il finale spiazza: il dialogo si trasforma in una pacata discussione tra lui e la moglie, la stessa attrice con una parrucca bionda, che dice di aver letto i suoi taccuini e lo accusa di tradimento. Lui tenta così di convincerla, con poche ma scelte parole, che si tratta di invenzioni, di una relazione immaginaria, materiale del libro che sta scrivendo.

Portare in scena dei romanzi come quelli di Philip Roth non è cosa semplice, tanto più se li si estrapola dal loro contesto di origine ma soprattutto se non viene rimarcata la capacità analitica dell’autore di tratteggiare gli uomini, con violenza e molto cinismo. Nella trasposizione, necessariamente, si perde molto, ma sperimentare non è un male. Un plauso alla regista e agli attori tutti.
Leggete Roth.

Lucy e le altre
da
 Philip Roth
drammaturgia e regia Laura Angiulli
con Paolo Aguzzi, Federica Aiello, Giovanni Battaglia, Luciano Dell’Aglio, Alessandra D’Elia, Carlo Di Maio, Fabiana Fazio, Antonio Marfella, Ginestra Paladino, Caterina Pontrandolfo, Caterina Spadaro, Fabiana Spinosa
progetto luci Cesare Accetta
impianto scenico Rosario Squillace (con la partecipazione degli allievi del biennio di scenografia teatrale dell’Accademia di Belle Arti di Napoli)
illuminotecnica Lucio Sabatino, Luca Sabatino
assistente Martina Gallo
aiuto macchinista Saman Munasinha Mudyanselage
direttore di scena Clelio Alfinito
collaborazione alla ricostruzione storica Lavinia D’Elia
foto di scena Ivan Nocera
produzione Teatro Stabile d’Innovazione Galleria Toledo
lingua italiano
durata 1h 30’
Napoli, Galleria Toledo, 26 ottobre 2021
in scena dal 22 al 31 ottobre 2021

Articolo originale uscito su Il Pickwick.