Racconti | Macchia

Salì al bosco di primo pomeriggio uscendo da Bavena e costeggiando il Parco Regionale dell’Aveto. Subito i sentieri e la vegetazione si fecero fitti. La luce opaca, densa. Nevicava nuovamente dalla tarda mattinata, dopo una sola nottata di sosta. Era la seconda settimana di pace dopo il crocevia dell’esame e l’assunzione. La biologia e le chiacchierate con la natura sarebbero rimaste alla stregua di una saltuaria frequentazione. Al solito, gli era parso d’infatuarsi ma si fermò al secondo volume. Ora qualcosa di impegnativo e duraturo gli avrebbe preso buona
parte del tempo. Pazienza.
I passi divennero più lenti, la pendenza aumentava gradualmente. Il silenzio, morbido. Braccia di neve scivolavano dai rami appesantiti, toccando il suolo con un tonfo spugnoso. Febbraio subentrava a gennaio con passo soporifero. Si chinò a tirare i lacci per stringere un nodo. Vide il biancore spesso della neve sopra il terreno e ne raccolse un pugno dentro il guanto. Era friabile.
Farina. Provò a soffiare e ne volò via una piccolissima nube. L’effetto lo rallegrò. Si sollevò e riprendendo il passo percepì un sospetto dietro sé. Terminò il passo e tenne la gamba davanti rigida per farne il nuovo appoggio. A quel punto si voltò a sinistra per guardare dietro la spalla, quasi immobili gli aghi degli abeti rossi che circondavano lo spettro visivo. Cadde ancora un braccio di neve, da almeno quindici metri, ma a una distanza sufficiente da ammutolirne il tonfo.
Gli parve di non possedere un baricentro totalmente saldo, quindi, prima di voltare di centottanta gradi la testa, riportò lo sguardo diritto innanzi a sé, e con mezzo passo della gamba indietro conquistò un appoggio più ampio. A quel punto non gli fu difficile voltarsi a destra senza l’impressione di cadere avuta un attimo prima. Ma non fu sufficiente a non spaccargli il respiro quando sotto i rami più bassi di un abete innevato lo vide.
Pazienza: che esclamazione ipocrita.
Il grigio a impasto marrone del pelo rammentava una traccia d’autunno al culmine dell’inverno silenzioso e teso.
Perché preferiamo abbandonare un sogno, anziché edificarlo?
Notò che il proprio respiro stava alterandosi.
Dove avrà riposto il primo testo di biologia che gli regalò sua sorella coi soldi di mamma?
Da quanto tempo stava osservandolo, o fu una sorpresa anche per lui?
È una buffonata, in definitiva, optare per un lavoro non amato ma proficuo: lo sapeva da prima di sceglierlo.
Scorta attraverso l’aria umida, la parte grigia del manto pareva quasi verde, ma forse era un’impressione.
Qual è il momento che ribalta il piacere in fastidio, in una storia d’amore, e la fa terminare?
Qualche alito di vento sollevava l’estremità di una ciocca pulita dalla neve.
Quando gli dissero che ci sarebbero voluti giorni per i referti, ebbe paura di non saper aspettare e non sapere aspettare era come cadere.
Gli occhi erano conficcati nei suoi, diseguali, molto chiari, ma uno dei due quasi cristallino.
Era scappato dalla caserma, dall’ospedale, da più di una donna, da almeno due lavori, da molti colloqui e da una prova di canto, dalle interrogazioni, dai bambini più grandi, dagli schiaffi di sua madre.
Percepì un tremore sotto la lingua, si sentì aver paura, ma non sentì la paura.
Al ritorno in ospedale per la diagnosi non avrebbe potuto sentirsi dire nulla di buono perché si accorse di non essersi dato la possibilità, durante tutti quei giorni, di pensare a qualcosa di buono.
Osservava il suo sguardo vigile tra i fiocchi sottili e feroci che gli cadevano innanzi, e ovunque intorno.
Impegnandosi al limite delle sue capacità era stato in grado di ottenere il peggio di quello che aveva immaginato: bravo!
Quando aveva smesso di osservare il resto della boscaglia?
Abbiamo fatto fiorire una letteratura indulgente e prolissa attorno alla questione del momento giusto per compiere un cambiamento, ma è un bellissimo teatro che nasconde la nostra codardia.
Si osservò divenire parte del proprio tormento, specchiato in quegli occhi glaciali e mansueti, e fu lì che intravide, in un’unica sequenza, il tempo sospeso del presente e poi quello smarrito del passato, inchiodato dopo un cammino di due ore e una vita di ventisette anni, in quella spaccatura di secondi che la neve perpetuava in eterno.
Non era questione di fare la cosa giusta, del resto, ma la scelta giusta: perché se ne accorse così tardi rispetto alle scelte già fatte?
Per un istante gli sembrò di respirare odore di zolfo, ma evidentemente era qualcosa d’altro, non sarebbe stato possibile: ma perché nell’accogliere il tremore della paura non si sentì solo?
Era chiaro, aveva mentito a suo padre e a sua sorella, ma la questione se la era rigirata fino a sistemarla, dentro sé, a tal punto d’essersi convinto d’essere pulito: ma non era vero, cazzo!
Nell’urgenza del respiro sfibrato ricordò d’aver letto che talvolta gli avversari – o le prede – tentassero di salvarsi sottomettendosi, schiena a terra: allora tentò di capire se doveva farlo, e se doveva farlo, quando, all’ultimo istante, durante la corsa, durante l’attacco, o adesso?
Scoprì il sesso, senza impararlo, nella sua stanza di ragazzo, toccandosi i tabù che pure un laico come lui avrebbe scoperto, più tardi ancora e con rabbioso stupore, di coltivare.
In quel modo gli avrebbe dato dell’altro tempo per fargli capire che si stava arrendendo, che sarebbe diventato ciò che avesse deciso lui.
Si era innamorato più d’una volta, ma soltanto in una ebbe la certezza di voler diventare un uomo migliore per quella donna.
Rammentò d’aver sentito dire che era da più di cent’anni che venivano attaccate solamente prede animali, o rivali, e non un uomo.
Una delle delusioni più ricorrenti cui dovette fare l’abitudine, negli anni, fu la persistente conferma d’appartenere a una società dedita per lo più a ostentazioni di capacità e simboli vacui ed inesistenti.
Non riusciva a muoversi. Ma è vero, non aveva paura: perché?
Il prossimo viaggio sarebbe stato in Patagonia, in solitaria, non avrebbe più rimandato, era soltanto questione di accumulare le settimane di ferie necessarie.
Eppure quei due occhi diseguali non lo fecero sentire respinto, quell’attesa vitale – o fatale? – gli parve giusta, per la prima volta intuì di non sottostare a un interrogatorio mirato a una conclusione, come in un tribunale degli umani.
Aveva sentito di cadere decine di volte innanzi all’ipotesi della malattia, fino a che non si sollevò nel momento in cui divenne una conferma.
Ebbe voglia di confessare a quegli occhi attenti e randagi cose che non avrebbe rivelato ad alcuno, ma cosa?
La malattia non è un luogo, ma un tempo.
Sembrava una follia, ma quella forma selvaggia e padrona dello spazio e della sua vita che aveva innanzi gli parve di una bellezza abbacinante.
Da anni, la notte sognava di suonare il pianoforte, e una chiesa buia, in bianco e nero, con bellissimi coni di luce bianca provenienti dall’alto.
Se fosse tornato indietro l’avrebbe raccontato?
La Patagonia non sarebbe stato un viaggio, ma una prova.
Si leccò la macchia nera sulla zampa in attesa della morte o della vita dell’altro.
Non bisognerebbe mai confondere un viaggio con una sfida, non bisognerebbe confondere nulla con una sfida.
Per un istante si posò la brezza: neve, solamente, e luce opaca.
Sarebbe giunto fino alla Terra del Fuoco, dove per seimila anni ha vissuto una popolazione autoctona ora quasi estinta che si chiama Yaghan: essi coniarono un termine che da qualche minuto gli frullava nella testa, Mamihlapinatapai, che racconta dell’azione di guardare negli occhi un’altra persona sperando che questa faccia qualcosa che tutti e due desiderano fortemente, ma che nessuno comincia per primo.
La concentrazione mansueta del lupo lo fece sospettare che non abbiamo raggiunto ancora un grado di evoluzione tale da decrittare l’intelligenza del regno animale.
Pensò a suo padre, che gli citava un certo polisindeto di Hemingway per parlargli di letteratura, doveva essere stato felice fino a che si scelse, eppure dovette non esserlo stato più da quando lasciò fare agli altri.
Se fosse morto, che cosa sarebbe rimasto?
Sembrava fosse rimasta in vita una sola donna Yaghan, l’ultima di seimila anni di storia, si diceva avesse oltre novant’anni e stesse compilando un dizionario della loro lingua, lo Yamana, che sarebbe morta assieme a lei.
Pareva pensierosa, la neve che cadeva, ma non lo era affatto.
Quanta parte della vita la trascorse a cercare suo padre in quello che non era.
Un fiocco gli si posò sulla lente sinistra degli occhiali: che fine faranno i padri, nel regno animale?
Madri e padri come dono della vita, e condanna.
Era scappato e aveva mentito decine di volte per questioni frugali, ma lì, con lo sguardo diseguale del lupo immerso nel suo, gli parve rivelatore il fatto di non doversi guardare attorno, di non dover temere trappole nascoste, che la questione fosse interamente davanti ai suoi occhi.
La malattia ci racconta, ma è un esito, non la scaturìgine.
Ricordò d’aver letto nel libro di biologia regalatogli da sua sorella, che l’animale che ora aveva innanzi normalmente si avventa al collo della preda per annullarla con un colpo solo, netto, coi canini ricurvi e i muscoli della mascella che lacerano tessuti, muscoli, carne, e per la preda la morte precipita immediata come con un colpo di fucile.
Fra tre giorni sarebbe stato in città, a quella scrivania, al suo posto, in attesa di maturare quanti più giorni possibile per un viaggio ingiustamente divenuto altro.
Abbassò il muso e annusò la neve.
La leggerezza è una virtù dell’intelligenza.
Poi lo risollevò.
Alla scrivania, al suo posto: quale posto?
Non ne era certo, ma gli parve di intravvedere il vapore acqueo fuoriuscire dal naso dell’animale.
Come si chiama lo spazio simbolico che svuotiamo quando rivendichiamo che è stato solo sesso?
Ci sarà un branco?
In alcun caso è soltanto sesso.
Ne sarà il capobranco?
Terminare amicizie o relazioni è altrettanto imprescindibile che saperle coltivare, negarne il senso è come negare le stesse.
Quanto sarà pesato, quaranta cinquanta chili?
Gli sovvenne un ricordo di Emanuele Severino confessato a un giornale, malinconiche parole rimembravano la moglie malata, con lui durante un viaggio a Cuba: una notte di tempesta il vento ululò contro una vetrata, così che la mano di lei sotto le lenzuola cercò la sua per stringerla, e a lui parve un commiato.
Come un mantra di cui aveva perso il controllo, si ripeteva che il lupo attacca l’uomo sporadicamente, ma ne è minacciato quasi esclusivamente.
Qualcuno ci fa credere costantemente d’essere nella parte luminosa della geografia.
Esistono più libri sul lupo che riguardo a qualsiasi altro animale selvatico.
E nella parte giusta della storia.
Sono animali estremamente sofisticati, con un complesso repertorio di segnali per comunicare tra loro.
Si sorprese pensare quanto fossero belli i loro nomi italiani, tra tutti i ghirigori sull’agenda della reception di Samarcanda, due anni prima. Quelli suo e di sua sorella. Di quanto prevista fu quella notte imprevista d’amore barbaro e rudimentale.
Il capobranco, il maschio alpha, non impartisce ordini, è il branco che normalmente lo segue.
Occorrerebbe tenere in casa, attaccata a una parete dove puntiamo l’occhio almeno una volta al giorno, una cartina rovesciata del mondo.
Pensò che se non fosse stato per il libro di biologia, le uniche cazzate che sapeva sui lupi derivavano da Cappuccetto rosso.
Se in qualsiasi momento sai dove sei e dove stai andando, probabilmente non stai andando da nessuna parte.
Improvvisamente si alzò un vento umido, sentì gocce spesse penetrargli nella pelle attraverso gli strati dei vestiti.
L’età non è sommare, ma dispiegare.
Non si era più mosso, e aveva la sensazione che le sue stesse orme si stessero ricoprendo.
Se potessi ricordarti per sempre – recitò fra sé – penserei alla geografia delle tue vene disegnate sotto la spalla, sopra il seno, alla luce asiatica della lampada da cucina.
Gli occhi del lupo accarezzavano leggeri il peso rarefatto della foresta, osservando ogni cosa, mentre la testa, la mandibola e le orecchie si voltavano indolenti a destra e a sinistra della scena, rigate appena dalla traiettoria della neve.
Cos’è che ci manca, quando ci manca qualcuno?
Per la prima volta da quando lo aveva incontrato, anche lui distolse lo sguardo dallo sguardo del lupo, per poi cercarlo nuovamente.
Eppure è ciò che non conosciamo che potrebbe cambiarci realmente.
È difficile immaginare cosa vede un uomo che osserva un lupo che lo osserva.
Siamo parimenti lontani e vicini alle cose.
La macchia si faceva lentamente più buia.

Cristiano Denanni

Tra logica e morale, a partire da un funerale

Non capirò mai perché, ai funerali, cercano sempre di farci credere che c’è una vita dopo la morte e che il defunto, da vivo, non aveva difetti. Se esistesse davvero un Dio misericordioso, sarebbe lecito domandarsi in virtù di quale capriccio ci lasci ad aspettare per decenni in questa valle di lacrime prima di concederci la vita eterna; e se davvero gli uomini si comportassero in modo così virtuoso come ci viene detto a posteriori, allora l’umanità non conoscerebbe né le guerre né le ingiustizie che affliggono gli animi sensibili.

Vi sarà capitato di immedesimarvi in qualche personaggio di un libro come è successo a me, sin dalle prime righe, con il narratore di Fila dritto, gira in tondo di Emmanuel Venet, scrittore e psichiatra francese. A raccontare è un uomo di oltre quarantacinque anni e la vicenda si svolge interamente nella sua testa. No, non c’entra niente la follia. È sì affetto da una sindrome, ma quella di Asperger che non comporta ritardi linguistici o intellettivi. Lo troviamo, lui, seduto su una panca di una chiesa durante un funerale, quello di sua nonna Marguerite.
Proprio su questa panca comincia la sua lunga riflessione silenziosa che ha esattamente la durata del funerale ed è lo stratagemma scelto dall’autore per raccontare la storia di una famiglia, “né peggiore né migliore di qualsiasi altra” scrive Éric Chevillard nella prefazione, ma su questo punto mi permetto di dissentire.
Il nostro narratore ama la verità, anche se non è un fanatico del vero, infatti comprende la scelta di truccare una salma per renderla presentabile, ma da qui a far passare i defunti per persone completamente diverse da ciò che sono stati in vita lo scarto è inaccettabile. Segue la logica nel ragionamento ed è asociognosico, incapace di piegarsi ai compromessi, alle convenzioni sociali e all’arbitrarietà dell’onestà. La sua non è una scelta ma qualcosa di imposto, per fortuna o sfortuna, e sono sicura che sul piano teorico siamo tutti concordi nel dire che la verità è meglio di una menzogna, che non bisogna scendere a compromessi nella vita e non interessarsi del giudizio altrui, ma nei fatti cadiamo nell’irrazionale, nelle convenzioni sociali per evitare pettegolezzi o perché troppo immersi in questa società, e tendiamo a essere magnanimi e inclini alla bugia “a fin di bene”. Ma per il bene di chi?

Per tornare alla mia identificazione con il narratore, io mi colloco nella parte del “tutti” con qualche virata verso il narratore. Sono allergica ai funerali, ai sermoni e alla solita solfa del “il nostro viaggio sulla terra ha come obiettivo quello di arrivare a Dio dopo la morte” per mie personali convinzioni sulla Chiesa e i riti collegati alla religione. Non ho mai partecipato a un funerale di quelli che si vedono nei film americani in cui parenti e amici preparano discorsi sul defunto, ma sono certa che mi ripugnerebbero esattamente come accade nel libro. Immaginate di sentir parlare di vostra nonna da un’officiante pagata per piangere e tessere le lodi di una persona che in vita non ha portato altro che sofferenza! Un affronto per chi, invece, avrebbe meritato una vita felice e almeno una celebrazione di tutto rispetto, come il nonno del protagonista, uno dei più grandi ingegneri del Genio Civile al mondo. Ma la storia della nonna è solo una piccola parte di questo “gioco al massacro” del narratore, il punto di partenza di una storia familiare ricca di sotterfugi, silenzi, errori, dolori e ipocrisia.

Negli ultimi cinque anni sono andata a trovarla solo per farle gli auguri il primo gennaio, un gesto ipocrita che mi ripugnava ma riguardo al quale mio padre era assolutamente inflessibile, e sono sollevato che sia morta una settimana prima del suo centesimo compleanno, perché altrimenti sarei stato costretto a partecipare al banchetto programmato in suo onore.

Non riesco a immaginare un mondo privo di bugie e omissioni. La verità sempre è complicata da sostenere. O forse, a lungo andare, migliorerebbe la vita di ognuno di noi sapere di poter dire tutto quello che pensiamo senza ritorsioni e ricevere uguale trattamento così da evitare inutili ansie e pensieri distorti e lontani dalla realtà. Pensiamo anche a cosa comporterebbe un mondo senza ipocrisia. Certo, qui il narratore tenero non è, ma non posso nascondere che eviterei anche io inutili pranzi annuali colmi di finzione con persone che per 364 giorni non senti e non vedi.

Mi piacciono i disastri aerei perché obbediscono sempre a una logica ben precisa che si può comprendere a partire da indizi a volte molto esili; e mi piace lo Scrabble perché sposta in secondo piano la questione del significato delle parole e permette di ottenere praticamente lo stesso punteggio con “soffocare” o “ventilare”.

Sorretto dalla logica, il narratore ha una vera ossessione per i disastri aerei di cui conosce ogni dettaglio, una mole di informazioni per noi superflue e un’intelligenza mal spesa. I disastri aerei hanno tutti una spiegazione, una mancanza evitabile che porta logicamente a un finale tragico. Un po’ come la sua vita, costellata di fallimenti relazionali per piccole mancanze o errori non voluti. Succede così con Sophie, unica donna che ha mai amato dal primo incontro al liceo. Un amore assoluto ma sempre e solo sognato. Un loro avvicinamento tardivo ha portato a un finale impensabile: Sophie ha un figlio affetto da fibrosi cistica, un divorzio alle spalle e una carriera cinematografica interrotta troppo presto.
Dalle poche mail di scambio il narratore comprende la sofferenza di questa donna e le dà un consiglio su come affrontare la malattia del figlio. Da qui ci saranno inevitabili conseguenze. Ecco a cosa porta la verità e la mancanza di tatto e di capacità di rapportarsi agli altri nel mondo di oggi.
Anche lo Scrabble funziona allo stesso modo: le parole diventano meri strumenti per accumulare punteggio, sono svuotate di ogni significato. Mentre il narratore segue schemi e percorsi logici anche nel linguaggio e nei rapporti con gli altri che lo portano quindi a scontrarsi con la morale, la difficoltà di affrontare la realtà, noi ci accorgiamo di quanto il nostro linguaggio sia limitante perché siamo noi a dargli significati, interpretazioni, sfumature oltre a non essere abbastanza per descrivere il mondo, le sensazioni, i sentimenti e le idee.
Lascio ai lettori il divertimento di scoprire la storia di questa famiglia insieme agli interrogativi che l’autore pone in questo breve romanzo: siamo il risultato di azioni concrete o un insieme di interpretazioni interne ed esterne?

Pubblicato originariamente su Il Pickwick.

Viviana Calabria


Emmanuel Venet
Fila dritto, gira in tondo
traduzione Lorenza Di Lella, Giuseppe Girimonti Greco
postfazione Éric Chevillard
Prehistorica Editore, Valeggio sul Mincio (VR), 2021
pp. 175

Presentazione del libro con i traduttori Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco.

“Solaris”. Le nostre colpe, il nostro passato

Confrontarsi con un testo importante della letteratura, da cui sono stati tratti due film, e rimaneggiarlo per il teatro non è cosa semplice. Stiamo parlando di Solaris, romanzo di Stanislaw Lem pubblicato nel 1961, conosciuto soprattutto per il film di Tarkovsky del 1972 e riproposto in un remake da Soderbergh nel 2002. Rifacimenti, reinterpretazioni, teorie hanno permesso all’opera di vivere oltre se stessa e creare materiale per continuare a riflettere. Non è necessaria una disamina sul genere fantascientifico cui appartiene il testo (serie A, serie B) perché è lui stesso a parlare e mostrare cosa c’è oltre l’elemento che lo rende di genere e fa storcere il naso a chi non ne è attratto. Però tenetelo a mente. La domanda che invece spesso ci si pone è: perché riproporre un testo di tanti anni fa?
La risposta del regista Andrea De Rosa potrebbe essere questa: “Ho letto Solaris durante la quarantena e mi aveva molto colpito questa idea che gli esseri umani potessero essere il virus e che il pianeta fosse costretto a reagire e a difendersi dalla loro presenza. Solaris è una vera e propria creatura, un pianeta vivente che attraverso il suo immenso oceano cerca di comunicare con gli uomini attraverso i loro desideri, che riesce a materializzare sotto forma di fantasmi”.

L’arte, un esempio è il campo letterario che ha visto la pubblicazione di saggi e romanzi sul tema o la riproposta di vecchi testi come La peste di Camus (tra i più venduti durante il lockdown), si è lasciata influenzare dall’emergenza sanitaria: giusto o sbagliato che sia l’importante è che non diventi l’unico punto di vista da cui osservare e analizzare il mondo. Ha portato di certo all’attenzione temi e problematiche dell’essere umano e del pianeta, ma verrebbe da domandarsi perché attendere una catastrofe per parlarne: l’arte non ha da sempre tentato di mettere in evidenza le contraddizioni del nostro mondo? Forse è questo, oltre al messaggio di Solaris, il vero motivo che dovrebbe essere (e che forse c’è) alla base della scelta del regista e di David Greig, autore del testo tradotto per l’Italia da Monica Capuani: il senso dell’arte. L’identificazione con l’oggi diventa solo una parte del tutto, un immediato punto di partenza che inevitabilmente è divenuto riferimento primario.
Ma lasciamo da parte le domande senza risposta e immergiamoci nello spettacolo.

L’ambientazione è riconoscibile appena si entra in sala: siamo al cospetto di una navicella spaziale costituita da una grossa pedana nera inclinata, un letto nero e in basso, a livello delle poltrone (le file sono state ridotte per avere lo spazio giusto e un po’ di distanza tra attori e pubblico) pochi elementi a indicare due stanze. Veniamo accolti da due interpreti in posizione, tanto da pensare lo spettacolo sia già iniziato. In quei minuti è possibile mettere a fuoco una televisione che manda programmi in bianco e nero che, sembra, una figura completamente coperta da una sorta di mantello che stia guardando, immobile. Dall’altro lato ad attirare l’attenzione è invece un passeggino, anch’esso nero.
Le luci si abbassano, silenzio.
“Chi sei tu?”. Sulla navicella spaziale che orbita intorno a Solaris arriva Kris Kelvin, psicologa e scienziata. La vediamo entrare da una botola che crea l’ingresso circolare della navicella. Si libera della tuta e si guarda intorno, incerta. Non la accoglie nessuno.
“Chi sei tu?”. La voce arriva da lontano: è Snow, uno dei tre scienziati della missione. È in evidente stato di confusione, non si lascia convincere dalla risposta di Kelvin, nome cognome professione. Al principio non comprendiamo il motivo di questa insistenza, di questa domanda-mondo la cui importanza si rivela poco a poco. Sartorius, l’altra scienziata, cammina per la sua stanza girando intorno al passeggino, a scatti, senza emozione alcuna. Ogni tanto cerca di calmare un bambino che piange, sshh. Gibarian, il terzo scienziato e maestro di Kris è morto: secondo Snow si è ucciso, Sartorius crede sia suicidio, aveva un cancro.
Cosa succede su quella navicella?
L’atmosfera di tensione si avverte grazie all’oscurità, a quel nero predominante che riceve luce solo quando gli attori parlano. A donare un po’ di luce è una specie di oblò della navicella, che funge anche da coperchio della botola, da cui è possibile vedere Solaris. Le immagini sono splendide, filmati tratti da materiali d’archivio, studiati perché possano ricordare le descrizioni del romanzo: la luce blu e la luce rossa che si alternano in queste orbite che il pianeta compie formando un otto, o il simbolo dell’infinito, contro ogni legge della fisica. Kris (che nel romanzo è un uomo) viene messa in guardia, cose strane accadono. Quando si addormenta una donna entra nella navicella e le si stende di fianco. È Ray, la donna che ha amato. È impossibile che sia lì eppure le somiglia così tanto. È un sogno? Sono reali, sembrano reali. Si tratta dei “visitatori”, questo il nome che hanno pensato per loro. Vengono da Solaris, quest’immensa distesa di mare, almeno a prima vista: all’inizio mandava loro degli oggetti, poi dei mostri.
Anche la bambina che piange viene da lì, l’ha trovata Gibarian. Ma non parlano.
“Lei parla”.
Ray parla. Ha con sé uno zaino con dei cd che fa ascoltare a Kris, sono alcune delle canzoni che hanno ascoltato
insieme. Ha anche un libro: Cime tempestose, il romanzo preferito di Kris. Provano a farle delle domande, carpire
informazioni. “Non lo so” ripete spesso. Non ricorda la sua vita, non conosce i titoli delle canzoni, il tipo di musica, dove si trova. Sa di essere australiana ma non conosce il nome della spiaggia più grande del suo paese. Accenna ad alcuni momenti vissuti con Kris, ma nulla di più. A tratti appare spaventata e confusa, in altri arrogante quando si rivolge a Snow.

Nel breve tempo dello spettacolo appaiono chiari due processi. Da una parte Ray alterna confusione a consapevolezza: tenta di uccidersi, di tornare al suo oceano e viene recuperata dagli scienziati. La seconda volta, invece chiede a Snow di farla sparire per sempre, distruggerla. Sa che il suo posto non è lì, non è umana, non è Ray.
Kris, invece, dalla consapevolezza rasenta quasi la follia: in due brevi monologhi scopriamo che Ray è stata la sua compagna fino a che non si sono separate, forse perché lei ha preferito la carriera. Un giorno un’amica le dice che è morta, risucchiata da un mulinello in mare, lei che era una nuotatrice provetta oltre che oceanografa. Non può essere, si è lasciata andare, è colpa sua. Ora che è lì non può lasciarla di nuovo, qualunque sia la sua natura. Chiede ai colleghi di rimanere, di non abbandonare la missione perché hanno stabilito finalmente un contatto con Solaris, possono studiare, scoprire, analizzare il pianeta. Ma i viveri scarseggiano e la situazione non è sostenibile.
Kris decide di rimanere. “Inventatevi quello che volete ma lasciatemi qua” perché il sogno è più bello della realtà.
Non siamo in grado di spiegare Solaris. Gibarian (Umberto Orsini) che appare solo in video, all’interno dell’occhiofinestra, attraverso dei messaggi lasciati proprio a Kris la definisce “una grande grossa palla di coscienza”. È un pianeta senziente, un bambino curioso che cerca il contatto con l’uomo inviando i visitatori. Come se leggesse nella loro mente riuscendo a creare qualcosa di simile. Ma perché lo fa e soprattutto ne è consapevole? Difficile dire se si tratti di una possibilità di redenzione o una condanna a rivivere sempre le proprie colpe. Molto bello, a proposito, quanto dice Sartorius: paragona il pianeta a un Dio fallibile, onnisciente e onnipresente ma limitato, che non si accorge delle conseguenze dei suoi atti. Da qui dunque l’incognita sul senso dei visitatori: la bimba nel passeggino che secondo Gibarian è un messaggio di speranza, diventa per Sartorius un incubo perché crede sia la figlia di sei anni che ha perso.
Snow riceve la visita della madre morta, la figura incappucciata e quasi mummificata sulla scena. Gibarian, invece, ha ricevuto come visitatore il cancro, causa della morte della madre.
È un confronto costante con il sé questo testo, è tanto altro dalla semplice fantascienza. Un confronto con le proprie colpe, il proprio passato e le conseguenze che le scelte hanno su noi stessi e sugli altri. Snow e Sartorius scelgono di andare avanti, Kris di soccombere, di lasciarsi travolgere perché lì fuori, per lei, non è vita. È chiaro che l’altro tema importante riguarda la volontà di conquista dell’uomo, e da qui il riferimento al virus. Il contatto con Solaris non è un semplice interesse scientifico ma vuole far raggiungere all’uomo una conoscenza superiore delle cose anche a discapito dell’equilibrio del pianeta; inoltre quest’intromissione può portare a un controllo e a un addomesticamento dell’Altro inteso come altro mondo, altro essere. Il discorso diventa quindi universale se a Solaris diamo di volta in volta una diversa connotazione.

La regia di De Rosa ha apportato alcuni cambiamenti, come la coppia Kelvin/Rey, formata da due donne: non è chiaro il motivo, forse per dare una spinta alle questioni queer odierne o per aumentare la parte femminile dell’equipaggio (già Greig lo aveva fatto col personaggio di Sartorius). Qualcuno ha ipotizzato che sia stata una scelta funzionale al testo perché le due donne diventano specchio l’una dell’altra, ma credo che il tema della colpa sia già perfetto per costringere qualcuno a analizzare se stesso. Un altro punto meno riuscito riguarda i passaggi degli attori da stanza a stanza: non ci sono porte che possano mostrare l’azione quindi alcune volte sembra stiano tutti insieme in un unico spazio, altre volte che siano invece separati ma con la possibilità di sentirsi, altre volte ancora sembrano isolati. Dal punto di vista recitativo non tutte le prove risultano allo stesso livello e lo spettacolo dà una sensazione di distacco e freddezza che l’atmosfera e la drammaticità non riescono a colmare: Snow (Werner Waas) ha un tono piatto e incolore in quasi tutte le scene che lo riguardano, la sua confusione si palesa soltanto all’inizio, persino durante l’interrogatorio a Ray non si trova urgenza e curiosità nella sua voce. Sartorius (Sandra Toffolatti) ha una voce molto calda e coinvolgente molto bella da ascoltare quando canta, ma a me la sua recitazione pare monocorde: anche quando rivela di sua figlia. Un plauso alle due attrici più giovani, Federica Rosellini e Giulia Mazzarino (in ordine Kris e Ray) che rendono bene i loro personaggi e la gamma di emozioni richieste; è soprattutto Ray a riuscire in questo passando dalla confusione all’arroganza alla paura in poche battute. L’adattamento di Greig in definitiva funziona perché riesce a dare un’idea del mondo inventato da Lem e dalle universali e attuali tematiche che ne hanno fatto un testo classico.
“Noi uomini partiamo per il cosmo pronti a tutto: alla solitudine, alla lotta, al martirio e alla morte. Anche se per pudore non lo proclamiamo a gran voce, spesso siamo convinti di essere persone straordinarie. In realtà quello che vogliamo non è conquistare il cosmo, ma estendere la Terra fino alle sue frontiere. Certi pianeti saranno desertici come il Sahara, altri glaciali come il polo o tropicali come la giungla brasiliana. Siamo nobili e umanitari, non vogliamo asservire altre razze ma solo trasmettere loro i nostri valori e, in cambio, impadronirci del loro patrimonio. Ci consideriamo i cavalieri del Santo Contatto, e questa è la menzogna numero due: la verità è che cerchiamo soltanto la gente. Non abbiamo bisogno di altri mondi, ma di specchi. Degli altri mondi non sappiamo che farcene, quello che abbiamo ci basta e ci avanza. (…). Quello che volevamo: il contatto con un’altra civiltà. E adesso che ce l’abbiamo, vediamo che si tratta solo della nostra mostruosa bruttezza, della nostra follia e della nostra vergogna ingrandite al microscopio!” (Stanislaw Lem, Solaris).


Solaris
di David Greig
nella traduzione di Monica Capuani
tratto dall’omonimo romanzo di Stanislaw Lem
regia Andrea De Rosa
con Federica Rosellini, Giulia Mazzarino, Sandra Toffolatti, Werner Waas
e con (in video) Umberto Orsini
filmati tratti dai materiali d’archivio di European Space Agency
concessi da Esa/Nasa
scene e costumi Simone Mannino
disegno luci Pasquale Mari
progetto sonoro G.U.P. Alcaro
video D-Wok
foto di scena Federico Pitto
produzione Teatro di Napoli-Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova
Napoli, Teatro Mercadante, 18 novembre 2021
in scena dal 17 al 28 novembre 2021

Pubblicato originariamente su Il Pickwick.

Viviana Calabria

Coro di voci per “Cuore di cane”

La lotta contro la censura, qualunque essa sia e sotto qualunque potere, è mio dovere, così come gli appelli alla libertà di stampa. Nella vasta arena della letteratura russa, in URSS io ero l’unico lupo. Mi hanno consigliato di tingermi il pelo. Consiglio assurdo. Sia tinto sia tosato, un lupo non assomiglierà mai a un barboncino.


Nella penombra del teatro, improvvisa irrompe una voce dal marcato accento russo. È Michail Afanas’evič Bulgakov, l’autore di grandi opere come Il Maestro e Margherita e Cuore di cane. Grande autore inviso al regime di Stalin, messo a tacere perché portatore di verità sulle contraddizioni e la corruzione della società, arriverà a desiderare di essere esiliato dal suo Paese perché “uno scrittore che tace non è un vero scrittore”.

Il sipario si apre e sulla scena appare una donna immersa nel nero, con una luce azzurra che arriva dal fondo e la neve che cade dall’alto. Porta una gonna lunga, degli stivali e una camicia, tutto di un diversa sfumatura di bianco. I capelli adornano una maschera, anch’essa bianca, che lascia scoperta solo la bocca. Dal microfono si inizia a udire un lamento, parole, sconnesse, ululati mentre di lato sta e suona l’amplificazione sonora di Tommaso Qzerty Danisi, che sarà perfetto nel ruolo perché riuscirà a dare ritmo alla rappresentazione, che altrimenti ne risentirebbe.
Ben presto appare chiaro che sul palco, a interpretare i personaggi, c’è la sola Licia Lanera. La sua figura e la sua voce modulata in base ai personaggi che fa parlare, sono protagoniste assolute della scena, in un monologo che diventa un coro. Una prova d’attrice di grande livello, che però catalizza l’attenzione su di lei adombrando il testo. Ed è qui che diventa chiaro che il bianco dell’abbigliamento e la maschera stiano a indicare neutralità: l’attrice si fa pura perché possa essere chiunque desideri, senza perdere però le sue caratteristiche femminili.
La rappresentazione si svolge in un piccolo spazio di palco, dinanzi al tavolo con tutta la strumentazione sonora, o su un piccolo rialzo dove sono posizionate una poltrona e una lampada.

La vicenda, grottesca e favolistica, racconta di Filipp Filippovič, un ricco scienziato che trapianta organi animali nei propri pazienti per donare loro l’eterna giovinezza, che un giorno salva un cane in fin di vita tenendolo con sé, dandogli il nome di Pallino e decidendo di utilizzarlo come cavia: impianta nel suo corpo ipofisi, una “camera chiusa che determina un dato tipo”, e gonadi di un uomo di venticinque anni che è stato assassinato poco tempo prima. Contrariamente alle aspettative il cane non solo sopravviverà ma si trasformerà in un uomo a tutti gli effetti, trasformazione che verrà narrata dall’attrice con l’ausilio di un quaderno messo sulla scena, con la copertina rossa e Cuore di cane ben in vista, “che però rincorre ancora i gatti”.
Il tema principale di Bulgakov − una forte critica al governo e alla sua volontà di cambiare radicalmente la società − non sempre riesce a imprimersi con forza in questa rivisitazione. Ben riuscite le caratterizzazioni dei personaggi “di passaggio”: un anziano cliente del dottore, dal riconoscibile accento milanese e che desidera ringiovanire per poter adescare giovani fanciulle, viene reso anche viscido grazie a un modo particolare di risucchiare mentre parla; il capo del palazzone in cui vive Filippovič è identificabile nel suo lessico romanesco e lo stesso scienziato, con il suo dire educato e pacato, rientra perfettamente nell’immaginario borghese così come rientra nella figura del ricco e privilegiato che crede di potere tutto. Perfino creare un uomo perfetto. Di minore potenza risulta invece la figura di Pallino, che dovrebbe incarnare tutti i vizi dell’uomo russo proletario, caratterizzato da un linguaggio ricco di imprecazioni, ma le cui disavventure assurde e grottesche vengono qui messe da parte.
Con Licia Lanera è la disumanizzazione dell’uomo a farla da padrone e, dunque, la figura dello scienziato. I pazienti sono una conseguenza di un mondo votato all’apparenza, alla fugacità non della vita ma della bellezza esteriore e dei piaceri più bassi.
L’uomo ricco e borghese sa di andare contro la morale e il buon senso, sa di operare una forzatura della natura stessa soltanto per dimostrare superiorità intellettiva, manifestando un potere assoluto sulla vita stessa. Ben presto giungerà in tutta la sua brutalità la consapevolezza dello sbaglio compiuto e la comprensione che la smania di andare oltre il possibile e il lecito non ha portato all’umanizzazione del cane. “Non ce la faccio più” si ripeterà spesso Filippovič. E da qui la scelta più giusta: riportare Pallino alle sue sembianze iniziali, farlo tornare un cane con un cuore di cane. Ormai “non ha più un cuore di cane, ma un cuore di umano, il più lurido che esista in natura”.
Buio.
Luce azzurra. Ombra di un uomo che ulula.

Cuore di cane
di Michail Bulgakov
adattamento e regia Licia Lanera
con Licia Lanera, Tommaso Qzerty Danisi
sound design Tommaso Qzerty Danisi
luci Vincent Longuemare
costumi Sara Cantarone
maschera Sarah Vecchietti
assistente alla regia Annalisa Calice
tecnici di palco Cristian Allegrini, Martin Palma
organizzazione Antonella Dipierro
foto di scena Manuela Giusto
produzione Compagnia Licia Lanera / TPE – Teatro Piemonte Europa
con il sostegno di MiBACT e Regione Puglia e dell’Assessorato all’Industria Turistica e Culturale, Gestione e
Valorizzazione dei Beni Culturali
lingua italiano
durata 1h 15′
Napoli, Piccolo Bellini, 30 ottobre 2018
in scena dal 30 ottobre al 4 novembre 2018

Pubblicato originariamente su Il Pickwick.

Viviana Calabria

Sul tradurre | La dama o la tigre?

Frank R. Stockton
La dama o la tigre?
traduzione italiana a cura di Yuri Sassetti

In tempi antichissimi, viveva un re semibarbaro, le cui idee, sebbene in qualche modo affinate e perfezionate dallo spirito moderno dei lontani parenti latini, erano ancora pompose, esuberanti e sfrontate, proprio come la sua metà barbarica. Era un uomo dall’estro vivace e, per di più, dall’influenza talmente irresistibile che, al solo volerlo, trasformava le sue più variegate fantasie in realtà. Tendeva ad ascoltarsi molto; quando lui e lui stesso erano d’accordo su qualcosa, era fatta. Quando ogni componente del suo apparato domestico e politico si muoveva senza problemi nella direzione che lui aveva stabilito, aveva un carattere mite e cordiale; ma ogni volta che si presentava un piccolo intoppo, e le cose iniziavano a prendere una brutta piega, era ancora più mite e cordiale, poiché non c’era niente che più lo allietava di raddrizzare le curve e livellare le asperità.
Tra le tradizioni mutuate dalla discendenza non barbarica c’era quella dell’arena pubblica, in cui dimostrazioni di virile e indomito coraggio affinavano e acculturavano le menti dei sudditi. Anche qui, però si affermava l’estro vivace e barbaro. L’arena del re non era stata costruita, infatti, per dare al popolo l’opportunità di sentire le rapsodie dei gladiatori morenti, né per vedere la conclusione ineluttabile del conflitto tra opinioni religiose e fauci affamate, bensì per scopi molto più adeguati ad ampliare e sviluppare le energie mentali degli spettatori. Questo vasto anfiteatro, con quelle cripte misteriose, i passaggi nascosti e le gallerie tutt’intorno, rappresentava un romantico concetto di giustizia, secondo cui il crimine veniva punito, o la virtù premiata, dalle sentenze di un fato imparziale e incorruttibile. Quando un suddito veniva accusato di un crimine abbastanza importante da interessare il sovrano, veniva dato pubblico avviso che in un giorno stabilito la sorte dell’imputato sarebbe stata decisa nell’arena del re; architettura che ben meritava questo nome, poiché, sebbene forma e concetto provenissero da molto lontano, il suo scopo era pura emanazione della mente di quell’uomo, che, Sua Altezza fino all’ultimo centimetro, non conosceva alcuna tradizione a cui essere più fedele che quella di compiacere il proprio estro, e che piantava in ogni forma di pensiero e azione umani il fiorente seme del proprio idealismo barbarico. Quando tutto il popolo si era radunato nelle gallerie e il sovrano, circondato dai membri della corte, seduto lassù, sul trono posto a un lato dell’arena, veniva dato il segnale, un portone sotto il re si apriva e l’imputato entrava nell’anfiteatro. Proprio di fronte a lui, dall’altra parte di quello spazio circoscritto, c’erano due portoni, uno accanto all’altro e assolutamente identici. Era onore e onere della persona sotto processo dirigersi verso uno dei due e aprirlo. Poteva spalancare quello che preferiva: non era soggetto ad alcuna indicazione o influenza, tranne quella del suddetto imparziale e incorruttibile fato. Da uno dei due, sarebbe uscita una tigre affamata, la più feroce e crudele a disposizione, che subito gli sarebbe balzata addosso per farlo a pezzi come castigo della propria colpa. Il destino del criminale sarebbe stato così deciso, le campane di ferro avrebbero suonato afflitte, numerosi pianti si sarebbero levati dalle persone in lutto appostate al bordo dell’arena e il vasto pubblico, con testa china e cuore affranto, si sarebbe con calma incamminato verso casa, in profondo lutto, poiché qualcuno così giovane e bello, o così vecchio e rispettato, era incappato in un destino tanto tragico. Se l’imputato avesse aperto l’altro portone, però, ne sarebbe uscita una dama, la più adeguata per età e condizione che Sua Maestà fosse riuscito a trovare tra quelle del regno; con questa si sarebbe dovuto sposare all’istante come ricompensa della propria innocenza. Non contava nulla avere già una moglie o una famiglia, o che i propri affetti fossero legati alla donna capitata in sorte: il re non avrebbe permesso che certi accordi di natura subordinata interferissero con quell’illustre disegno di punizione e ricompensa. La cerimonia, come nell’altro caso, si sarebbe svolta subito, dentro l’arena. Sotto la postazione del re, si sarebbe aperto un altro portone e un prete, seguito da una comitiva di coristi e di fanciulle danzanti, che suonavano su metri epitalamici arie gioiose con il corno, si sarebbe avvicinato al punto in cui i due stavano, l’una accanto all’altro, e il matrimonio sarebbe stato celebrato con puntualità e allegria. Poi, le giulive campane di bronzo avrebbero suonato felici rintocchi, la gente gridato urrà gioiosi e l’innocente, preceduto da bambini pronti a spargere fiori sul cammino, condotto la sposa a casa.

Questo era il metodo semibarbarico con cui il re amministrava la giustizia. Ne è evidente l’assoluta imparzialità. Il criminale non poteva sapere da quale portone sarebbe uscita la dama: ne avrebbe aperto uno a suo piacimento, senza avere la benché minima idea se, un attimo dopo, sarebbe stato divorato o si sarebbe sposato. Certe volte, la tigre usciva da un portone; certe altre, dall’altro. Le sentenze di questo tribunale non erano soltanto imparziali, ma anche assolutamente definitive: che gli fosse piaciuto o meno, se ritenuto colpevole, l’imputato sarebbe stato punito all’istante; se innocente, premiato sul posto. Non vi era scampo dai verdetti dell’arena.
L’istituzione era molto popolare. Quando i sudditi si riunivano per questi importanti processi, non sapevano mai se quel giorno avrebbero assistito a un sanguinoso massacro o a un felice matrimonio. Questo elemento di incertezza conferiva all’evento quel grado di interesse altrimenti impossibile da raggiungere. Così, le masse venivano intrattenute e compiaciute, e gli intellettuali non potevano accusare questa prassi di imparzialità; d’altronde, non era forse vero che il destino dell’imputato era tutto nelle sue mani?
Questo re semibarbaro era padre di una fanciulla tanto in fiore quanto le sue più floride fantasie, e dallo stesso animo fervido e arrogante. Come di solito accade in questi casi, era la pupilla dei suoi occhi e l’amava più di ogni altro essere umano. Tra i membri della corte, c’era un giovane di quella nobiltà di spirito e bassezza di rango comuni a tutti gli eroi romanzeschi che s’infatuano di una principessa. Lei era molto soddisfatta del suo amante, bello e coraggioso come non ve n’erano altri nel regno; e lo amava con un ardore che aveva abbastanza del barbarico da renderlo eccessivamente appassionato e fiammeggiante. Questa storia d’amore andò avanti con spensieratezza per mesi, finché un giorno il re ne scoprì l’esistenza. Il dovere verso i propri principi non gli concesse di esitare o vacillare. Il giovane fu subito gettato in prigione e fu fissato un giorno per metterlo a processo nell’arena del re.
Certo, questo fu un evento particolarmente importante: Sua Maestà, come tutto il popolo, fu molto interessato alle dinamiche e allo sviluppo del processo. Mai prima d’ora si era verificato un caso del genere. Mai prima d’ora un suddito aveva osato amare la figlia del re.
Negli anni, certe cose divennero abbastanza comuni, ma a quel tempo erano, senza ombra di dubbio, nuove e stupefacenti.
Le gabbie di tutto il regno furono ispezionate alla ricerca delle bestie più brutali e implacabili a disposizione, di modo che per l’arena venisse scelta la tigre più feroce del reame; ovunque, i giudici più competenti esaminarono con attenzione schiere di ragazze giovani e belle affinché l’uomo potesse avere una sposa adeguata, qualora il fato avesse avuto in serbo per lui un destino diverso. Naturalmente, tutti erano ben consapevoli che il crimine di
cui veniva accusato l’imputato era stato compiuto davvero. Aveva amato la principessa, e né lui, né lei, né chiunque altro pensavano di negare i fatti; ma il re non permise che nessun genere di fatti interferissero con le dinamiche processuali, da cui traeva così gran diletto e soddisfazione. Non importava come sarebbe andata a finire la faccenda, il giovane sarebbe stato tolto di torno; e il re avrebbe provato un piacere indescrivibile a osservare il corso degli eventi, che avrebbero determinato una volta per tutte se il giovane avesse sbagliato o meno a permettersi di amare la principessa.
Arrivò il giorno del processo. Venuta da ogni parte del regno, la gente dei borghi si radunò e accalcò nelle grandi gallerie dell’arena; e le folle delle campagne, a cui era negato l’accesso, si ammassarono davanti alle mura esterne. Il re e la corte erano al loro posto, di fronte ai due portoni gemelli: quei portoni fatali, così terribili nella loro similarità.
Tutto era pronto. Fu dato il segnale. Il portone sotto la postazione reale si spalancò e l’amante della principessa entrò nell’arena. Alto, bello e biondo, il suo aspetto fu accolto con un mormorio sommesso di ammirazione e preoccupazione. Metà degli spettatori non sapeva che tra loro vivesse un giovane così maestoso. Non c’era da stupirsi che la principessa lo amasse! Che cosa orribile per lui, essere finito lì!
Mentre il giovane avanzava nell’arena, si voltò, com’era costume, per inchinarsi al sovrano, ma la sua attenzione non era rivolta a quella personalità regale: gli occhi erano fissi sulla principessa, che sedeva alla destra del padre. Non fosse stato per la metà barbarica della sua natura, probabilmente la donna non sarebbe stata lì, ma quell’animo fervido e acceso non le permetteva di mancare a un evento capace di provocarle un interesse così febbrile. Dal momento che l’atto era stato emanato, e quindi che l’amante avrebbe dovuto decidere il proprio destino nell’arena del re, giorno e notte non aveva pensato ad altro che a questo grande evento e ai vari argomenti ad esso collegati. Avendo più potere, influenza e carattere di chiunque si fosse mai interessato ai processi dell’arena, aveva fatto ciò che nessun altro avesse mai osato fare prima: si era impadronita del segreto dei portoni. Sapeva in quale delle
due stanze c’era la tigre, nella sua gabbia aperta, e in quale una dama in attesa. Attraverso quelle spesse porte, all’interno fittamente ricoperte di pelli, era impossibile che alcun rumore o suggerimento giungessero all’orecchio di chi si sarebbe avvicinato per alzare il chiavistello, ma l’oro e la forza di volontà femminile avevano consegnato il segreto alla principessa.

E non soltanto sapeva in quale stanza si trovasse la dama, pronta a spuntare, splendente e imbarazzata, qualora quel portone fosse stato aperto, ma sapeva anche chi fosse.
Era una delle donne più belle e graziose della corte, ad essere stata scelta come ricompensa del giovane imputato, qualora fosse stato provato innocente del crimine di aver aspirato a una persona così al di sopra di lui; e la principessa la odiava. Spesso aveva visto, o credeva di aver visto, questa bella creatura gettare sguardi ammirati al suo amante, e a volte credeva quegli sguardi percepiti e perfino ricambiati. Di tanto in tanto, li aveva visti parlare insieme; non erano che attimi fugaci, ma si può dire molto anche in poco tempo. Magari si trattava soltanto di argomenti irrilevanti, ma come poteva saperlo? La ragazza era graziosa, ma aveva osato alzare lo sguardo sul suo amato; con tutta l’intensità del sangue selvaggio trasmessole da antiche discendenze di avi del tutto barbari, odiava profondamente la donna imbarazzata e fremente che stava dietro quel portone silenzioso.
Quando il giovane si voltò e la vide seduta lassù, più pallida e bianca di qualunque altra faccia nel vasto oceano di terrore intorno a lei, percepì, grazie a quella improvvisa intuizione tipica delle anime gemelle, che sapeva dietro quale portone fosse accovacciata la tigre e dietro quale stesse la dama. Se l’aspettava, che lo sapesse. Conosceva la sua indole, ed era sicuro che non si sarebbe data pace finché non avesse fatto chiarezza su quel segreto tenuto nascosto a tutti i presenti, perfino al re. L’unica speranza per il giovane di avere un appiglio sicuro si fondava sul successo della principessa di risolvere il mistero; nel momento in cui l’aveva guardata, aveva visto che ci era riuscita, ma in cuor suo sapeva che ce l’avrebbe fatta.
Fu allora che i suoi occhi, rapidi e ansiosi, glielo domandarono: “Quale?” Le giunse chiara come se la stesse gridando dal punto in cui si trovava. Non c’era un secondo da perdere. La domanda era stata posta in un lampo; si doveva rispondere in un altro.
Il braccio destro era appoggiato al parapetto imbottito davanti a lei. Alzò la mano e fece un leggero, rapido movimento verso destra. Nessuno, tranne il suo amato, la vide. Tutti gli occhi erano fissi sull’uomo nell’arena.
Si voltò e con passo rapido e deciso attraversò lo spazio vuoto. Ogni cuore smise di battere, ogni respiro fu trattenuto, ogni occhio fissò quell’uomo. Senza la minima esitazione, si avvicinò al portone di destra e l’aprì.
Ora, il punto del racconto è questo: da quel portone è uscita la tigre o la dama?
Più riflettiamo su questa domanda e più è difficile rispondere. Implica uno studio del cuore umano che ci conduce attraverso i tortuosi labirinti della passione, dentro i quali è però difficile trovare la strada. Pensateci, gentili lettori, non come se la decisione dipendesse da voi, ma da quella sanguigna principessa semibarbara, il cui animo era incendiato sia dalle fiamme della disperazione sia da quelle della gelosia. Ormai lo aveva perso, ma chi avrebbe dovuto averlo?
Chissà quante volte, nelle ore di veglia e nei suoi sogni, avrà sussultato di folle paura e si sarà coperta il viso con le mani, al pensiero del suo amante che apriva il portone dietro cui lo aspettavano le crudeli zanne della tigre!
E chissà quante altre l’aveva visto al secondo portone! Come, nelle sue dolorose fantasticherie, avrà digrignato i denti e si sarà strappata i capelli, nel vederlo sussultare di una gioia indicibile mentre apriva il portone della dama! Come la sua anima avrà bruciato di sofferenza nel vederlo correre incontro a quella donna, con le guance rosse e gli occhi scintillanti di trionfo; nel vederlo condurla fuori, ogni muscolo illuminato dalla gioia della vita ritrovata; nel sentire le grida festose della massa e il suono incontenibile delle allegre campane; nel vedere il prete, insieme a quei giulivi seguaci, avanzare verso gli sposi e farli marito e moglie davanti ai suoi stessi occhi; nel vederli allontanarsi insieme lungo il sentiero di fiori, seguiti dagli impetuosi strilli della massa divertita, dentro cui il suo grido disperato e solitario si perdeva e affogava!
Non sarebbe stato meglio fosse morto all’istante, così da poterla attendere nelle beate regioni dell’al di là semibarbarico?
Eppure, quella tremenda tigre, quelle grida, quel sangue!
Aveva comunicato la sua scelta in un secondo, ma era stata presa dopo giorni e notti di angosciose riflessioni. Sapeva che glielo avrebbe chiesto, così aveva deciso che rispondergli e, senza la minima esitazione, aveva mosso la mano verso destra.
La questione della scelta non è cosa da prendere alla leggera, e non sarò così presuntuoso da credere di essere l’unica persona in grado di rispondere. Quindi, mi rimetto a tutti voi: cosa è uscito dal portone, la dama o la tigre?