Buon lunedì lettori! Di ritorno da Piùlibripiùliberi, stanca ma felice, riprendono i consigli di Natale. Ricordo che è sempre possibile partecipare inviandomeli tramite facebook o email.
Oggi ospito Emma e Valeria di Farmacia Letteraria. Buona lettura 🙂
Noi della Farmacia Letteraria abbiamo sposato da sempre l’idea della biblioterapia, il cui padrino (esimio Fabio Stassi) ci ha avvicinato con le sue prefazioni a “Curarsi con i libri”.
Il nostro blog è nato due anni fa per essere un luogo di incontro e di scambio, di confronti e di chiacchiere. I post ruotano intorno a un rinnovato e consapevole bisogno di leggere ANCHE per sedare, lenire, addolcire, smussare le mille ansie, preoccupazioni, stress della nostra, purtroppo, affannata vita quotidiana.
Sappiamo che esistono, da un paio d’anni in qua, innumerevoli blog, gruppi, siti che si occupano di biblioterapia, che (anche con professionalità e seriamente) propongono la lettura di testi selezionati ad hoc a coloro che si dichiarano affetti da tormenti (spesso anche diagnosticati seriamente).
Il nostro approccio non vuol essere di questo tipo: sarebbe presuntuoso, azzardato, fors’anche pericoloso proporsi come guaritrici di alcunché tramite i libri. Probabilmente esiste qualcuno che ha le competenze per farlo, ma a noi, che siamo una docente e una psicoterapeuta, ma soprattutto due lettrici compulsive, interessa creare e far frequentare un gruppo che, discorrendo intorno a titoli, autori, tematiche possa offrire spunti di condivisione delle proprie esperienze personali, in merito a quanto possa essergli stata d’aiuto la lettura in particolari occasioni o contrasti.
Interessa, insomma, leggere per leggersi.
Insieme.
Questi i nostri consigli di lettura, scelti con sentimento fra i letti e recensiti in quest’ultimo biennio, sperando possano esservi utili.
Grazie per l’ospitalità!
PERCHÉ Anna Pignatelli – Ruggine (Fazi)
Perché delle lezioni di forza si ha sempre bisogno.
Il ferro fa la ruggine.
È forte, non si spezza mai, può piegarsi e curvarsi, lasciarsi corrodere da una crosta arancione, ma non perde l’anima fiera e robusta, la cui tenacia sta nella consapevolezza di un istinto proprio, felino e selvaggio, che non smarrisce lo slancio, che non accetta mai di riempire la propria vita con quella degli altri. Ruggine è la vecchia protagonista di questo romanzo di Anna Pignatelli, un’esistenza solo all’apparenza piatta (ma nessuna mai lo è, ogni vita può essere sfaccettata e imprevedibile anche se si snoda nello stesso posto) che l’ha logorata, inarcandola e temprandola, regalandole un’indulgenza indolente di fronte alla quale si china il capo.
Piegata ma non vinta.
Vive in un borgo di vecchi, fatto di tutte le cattive rughe dell’umanità, che lei imbelletta ostinata sopportando ogni oltraggio con la sua lentezza; lo attraversa con il passo lieve godendosi la grazia incantevole del mondo intorno che l’incapacità di vivere ci ha sottratto. Ama la vita nonostante tutto, e di Male ne ha provato e continuerà a provarne, ama gli uomini non perdendo mai l’interesse per loro, quasi fosse senza tempo ed eterna, immortale, continuando a tenere accesa la curiosità, aiutandosi con il vino e con l’oblio della mente, con l’inossidabile (quello sì..) amore per la naturale bellezza della natura intorno e del suo perpetrarsi attraverso le stagioni. Si lega a personaggi diversi come lei, estranei e stranieri alla meschinità e alla superstizione, anche a costo di essere tradita per l’ennesima volta, anche a costo di non ricevere l’aiuto che si aspetta da chi vive solo le strade. La sua forza è invidiata, odiata, come accade a chi resta per sempre risentito nei confronti dell’esistenza trasformandola in una ostilità che inchioda i Cristi alle croci non solo una volta l’anno.
Ferro è il suo gatto. Le loro vite sono legate indissolubilmente, è l’animale a tenerle sempre davanti agli occhi la forza del piacere e della vittoria, dell’irriverente andarsene per notti impossibili a ferirsi in zuffe per accoppiarsi, del placido riposo degli istinti appagati; è un memento costante la sua compagnia, quando accetta di trattenersi su un cuscino e rimangono a guardarsi nelle pupille, perché quel silenzioso parlarsi significa proprio che la vita s’impone con il sangue e con la lotta e ogni giorno è un’esperienza indicibile, anche se si resta fermi a fissare le fiamme del caminetto.
Le altre figure che popolano il romanzo, per lo più grette e sordide, sfilano intorno; il figlio anzitutto, ma non se ne può parlare, fa parte del male della vita; il marito defunto, un fantasma più vivo da morto di ciò che è stato invece in vita; il padrone di casa, la professoressa dirimpettaia, il bottegaio, una ragazza che non saprà decidere se accettare la sfida che silenziosamente l’anziana donna le ha lanciato; degni di nota il parroco e lo zingaro, messi al bando come lei dalla comunità raggomitolata su se stessa.
La scrittura della Pignatelli è magnifica, le parole scelte a una a una, d’una bellezza cesellata che non oscura gli animi che descrivono, anzi, li fa brillare di luce propria, non distrae, consente di guardare ai personaggi come se li avessimo di fronte, a scrutare nelle pieghe del viso e nei colori dei paesaggi circostanti. Una penna perfettamente dosata, limpida e densa ma senza esagerazioni.
Non amo i superlativi, ma questo romanzo è bellissimo.
PERCHÉ Lydia Salvayre – Non piangere (L’asino d’oro)
Per non dimenticare la passione che anima la vita.
Ci sono libri che ti ritrovi per le mani e sono sorprese che non ti aspetti: atmosfere che ti portano indietro ad autori che furono, a titoli perduti, a una letteratura lontana.
Forse invecchiando si diventa più esigenti, si guarda criticamente alla scrittura, con diffidenza alla trama, con esasperata attenzione ai personaggi. Si legge con studio, esaminando.
Questo invece è uno di quei romanzi che dopo qualche pagina ti solleva e ti porta con sé, semplicemente, ci entri dentro ed è un’esperienza.
L’autrice nasce in Francia da rifugiati spagnoli e racconta attraverso le parole della ormai anziana madre l’estate del 1936 agli albori della guerra civile; degno di riflessione il fatto che la traduzione italiana del romanzo, a cui è stato attribuito nel 2014 il Premio Goncourt, sia stata curata da una “piccola” casa editrice indipendente.
La scrittura è davvero trascinante (per quel poco che ne sappiamo, ottimo il lavoro di traduzione che rende benissimo il pasticciato idioma mezzo spagnolo mezzo francese della voce narrante; la quale passa spesso in terza persona lasciando il filo della narrazione alla figlia che ascolta il racconto, senza che questo disturbi minimamente la lettura); lodevole la documentazione storica che ricostruisce luoghi ed eventi senza mai essere didascalica, costruendo uno scenario pieno della vita di personaggi uno più bello dell’altro che rappresentano le varie e controverse anime della confusa situazione politica del tempo.
Ci sono due livelli di lettura: uno più “cronachistico” che racconta il vortice di violenza che travolse franchisti, libertari, rivoluzionari, gente comune senza assolvere o giustificare nessuno. Un quadro di generale sconvolgimento la cui interpretazione è la storia di un cambiamento mal vissuto e mal gestito, la vigilia del conflitto mondiale e il tragico monito che tutto ciò che avvampa lascia ceneri dolorose che covano per anni; che dalla parte del giusto non c’è mai nessuno se si dimentica il rispetto della vita e l’abominio della morte; che i valori non sono mai assoluti e che bisogna sempre essere disposti a cambiarli, ad azzardare lo scontro, la derisione, la condanna.
L’altro livello, invece, è pura passione. Ovunque.
In ogni rigo, frase, negli occhi e nelle parole dei due fratelli protagonisti, dei genitori inconsapevoli e di tutte le figure che letteralmente divampano di vita, brutale, feroce, vera, che per la prima volta si fanno travolgere da una piena di emozioni appena o mai vissute, che scoprono quel disordine che al tempo stesso si ama e deprime.
Corpi che protestano contro le censure imposte alle anime; bisogno di realtà che non può essere la vocazione alla rinuncia (ciò che tristemente insegnano le madri perché hanno paura che troppa vita la accorci troppo).
Un innamoramento totale, di idee, visi, canzoni, che stravolge tutto, che è (questo sì) vera rivoluzione, anche se poi tutto cinicamente degenera in una guerra orribile e disperata; il ricordo radioso di un’estate, di una gioventù in cui ci si è sentiti migliori, con il cuore eternamente in tumulto, un impetuoso soffio che continua ad animarci per altri settant’anni, dissipando tutto ciò che poi di amaro la stessa vita riserva con i voltafaccia che solo lei è capace di fare.
Un libro che ha messo al sicuro tutto questo, perché c’è bisogno di soffiare ogni tanto sulle braci e rinnovare quell’infinito desiderio di poesia che è l’unico, vero motivo per cui si continua a vivere.
PERCHÉ Joseph Incardona – La metà del Diavolo (NNEditore)
Perché un thriller ci vuole sempre, anche a Natale.
La nostra per NNEditore è una infatuazione: attratta dalla copertina, ho scoperto anche questo titolo e ancora una volta non delude. Si potrebbe dire un noir: ma non lo si può ingabbiare in una definizione di genere. Tutto il libro è uno spietato occhio di bue sul nocciolo duro della realtà, il luogo in cui si pensa solo a sopravvivere, dove solo la sofferenza legittima un’esistenza disincantata; i personaggi sono intrappolati in catastrofi collegate tra loro da un Male comune; hanno smesso da tempo di cercare un senso e di chiedersi perché, pensano solo al come districarsi in una vita nuda e cruda, sordida, brutale, spietata sia per le vittime che per i carnefici. La trama è avvincente, serrata, tessuta da una prosa che alterna periodi corti e cortissimi, incalzanti, a dialoghi stringati, pensieri veloci che si affastellano; 270
pagine che si leggono avidamente se non per fermarsi con l’affanno su pause marcate dense di riflessione. Si percorre come un’autostrada: che è l’ambientazione del romanzo, un tratto limitato da casello a casello, autogrill, aree di sosta, la sporca boscaglia al di là delle recinzioni metalliche, un’umanità frenetica e distratta che non si accorge del marcio che si porta dentro.
Impossibile raccontare di più: le vite dei vari personaggi si intersecano intorno alla sparizione di una bambina.
Joseph Incardona, l’autore per metà svizzero e per metà siciliano, è nato nel mondo del polar e ha inanellato una serie di premi letterari d’oltralpe: mi ha ricordato spesso Thomas Harris.
Bella scoperta. Ottima lettura.
PERCHÉ Cees Nooteboom – Il canto dell’Essere e dell’Apparire (Iperborea)
Perché è un gioiellino: qualità e non quantità.
Un racconto lungo, meno di cento pagine: uno scrittore olandese assillato dal senso dello scrivere dà vita ad una storia che cresce insieme al suo tormento interiore.
Una narrazione inconsueta che si svolge su due piani paralleli, la costruzione narrativa dello scrittore e le gesta dei tre personaggi da lui inventati.
Amsterdam alla fine degli anni 80 e la Bulgaria di fine secolo.
Due ambientazioni, due mondi (uno reale e uno fittizio) che immancabilmente finiscono con il sovrapporsi e fondersi: chi scrive lo fa per inventarsi la vita, inventare vite o credersi Demiurgo, finendo però per ritrovarsi invischiato in ciò che sta narrando, che si rinvigorisce, acquista concretezza, diventa talmente reale da influenzarlo prima e attrarlo dopo.
I due piani si fondono e il finale è sorprendente.
Splendida metafora del potere della scrittura: una forza vivificatrice che non sempre si riesce a dominare e che finisce col dominarci, rendendo indefinito il confine tra finzione e realtà.
Infine …
Il classico.
Gabriel Garcia Marquez – L’amore ai tempi del colera.
Semplicemente perché è la più bella, colorata, appassionata, viva, struggente, magica, incantata epopea di un amore mai scritta.
Senza Gabo non ci si può definire amanti della lettura. E questo è un suo capolavoro.
E se Natale è la festa che celebra ancora il venire alla luce …
«Si lasciò portare dalla sua convinzione che gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce, ma che la vita li costringe ancora molte altre volte a partorirsi da sé.»
Buone Feste a tutti e grazie.
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